Dalla marcatura a uomo all'amicizia con Mancini: Garzja racconta il Bari di Fascetti
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lunedģ 7 febbraio 2022
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di Claudio Mezzapesa
Il difensore salentino fu una delle colonne portanti del Bari di Eugenio Fascetti, che dopo aver conquistato la promozione in A nella stagione 1996/97 riuscì a brillare nella massima serie per tre anni consecutivi, sino alla retrocessione avvenuta nel 2001.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Gigi di quella compagine era il terzino destro, affidato a compiti di marcatura sull’attaccante avversario più veloce. Arcigno, rapido e dotato di forte personalità, divenne anche capitano di una squadra che fondava la sua forza sulla compattezza della retroguardia, schierata dal proprio allenatore rigorosamente “a uomo”.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
E così dopo aver intervistato altre “vecchie glorie” del Bari come Bergossi, Perrone e Protti, abbiamo parlato con Garzja.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Nel 1996 a 27 anni passasti dalla Cremonese al Bari, all’epoca guidato da mister Eugenio Fascetti. Che ricordi hai dell’arrivo nel capoluogo pugliese?
Fascetti mi voleva a tutti i costi: era stato lui tra l’altro a farmi esordire nel Lecce a soli 16 anni di età e tra noi c’era stima e fiducia. Accettai l’offerta del Bari con entusiasmo: si trattava di una grande piazza, conoscevo il pubblico e lo stadio. Arrivai in squadra che era appena retrocessa ma che aveva voglia di tornare subito a calcare i massimi palcoscenici calcistici. Certo, il clima non era quello dei migliori, visto che i tifosi erano delusi anche per l’addio di idoli come Protti e Andersson. Ma grazie al nostro carattere riuscimmo a ritornare immediatamente in A, tra l’altro dopo un’incredibile rimonta.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Raccontaci di quella promozione.
Nel complesso avevamo una squadra abbastanza giovane, anche se c’era gente più esperta come il centrocampista tedesco Thomas Doll e lo stopper Marcello Montanari. La rosa era però composta da giocatori “di carattere”. Fascetti puntava molto sulla difesa, mentre in attacco si affidò all’emergente Nicola Ventola, proveniente dal vivaio biancorosso. All’andata vincemmo tante partite di fila, totalizzando 29 punti, ma il girone di ritorno non iniziò nel migliore dei modi. Perdemmo posizioni in classifica che recuperammo però con un gran finale: il nostro valore venne fuori, nonostante tutte le difficoltà. Fu una promozione non facile da conquistare, combattuta fino all’ultima giornata, ma proprio per questo ancora più emozionante.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Ultima giornata che non dimenticherai mai…
Sì, era il 15 giugno 1997 e giocavamo contro il Castel di Sangro. Per andare in A dovevamo per forza vincere e ci venne in aiuto tutta la città. Lo stadio San Nicola era strapieno: una vera e propria bolgia, c’erano 60mila spettatori. Quando entrammo in campo per il riscaldamento si alzò un boato incredibile. Dopo trenta secondi dal fischio d’inizio Ventola segnò il gol del vantaggio. Passò appena mezz’ora e Guerrero fece il 2-0 con un tiro al volo micidiale su assist di Giorgetti. E pochi minuti prima dalla fine del primo tempo Volpi chiuse la partita con un’esecuzione da fuori area. Ci imponemmo per 3-1 e raggiungemmo il quarto posto e quella serie A tanto sudata.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Nella massima serie disputaste quattro stagioni di fila, di cui le prime tre condite da belle soddisfazioni.
Fu un periodo bello e intenso, conquistammo la salvezza per tre anni consecutivi arrivando nel 1999 anche al decimo posto. Tra l’altro in quel periodo ebbi la fortuna di giocare con futuri campioni del mondo come Simone Perrotta e Gianluca Zambrotta e con talenti emergenti quali Antonio Cassano. Fascetti possedeva un grande appeal verso i suoi calciatori e noi ci fidavamo completamente di lui. E i risultati ci diedero ragione. Il nostro calcio era poco spettacolare ma molto efficace: eravamo forti e temibili. Mettevamo in difficoltà chiunque: Juventus, Milan, Inter, Roma. Era difficile per tutti venire a Bari e fare risultato.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Eravamo alla fine degli anni 90 e voi marcavate ancora uomo. Per un difensore come te quali erano le difficoltà?
Fascetti di solito ci disponeva con il 3-5-2, che spesso nel corso della partita diventava un 4-4-2, ma sempre con la presenza di un vero e proprio “libero”, ovvero Gaetano De Rosa. Marcare a uomo comportava un maggior dispendio di energie rispetto a giocare a zona, visto che spesso si andava ad affrontare l’avversario nell’uno contro uno. Ogni duello diveniva così determinante e noi difensori eravamo investiti di una maggiore responsabilità.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Nel campionato 1998/99 diventasti anche capitano di quella squadra, proprio tu nato e cresciuto calcisticamente a Lecce…
In quegli anni c’era una grande rivalità tra Lecce e Bari che spesso si ritrovavano a giocare nello stesso campionato. I tifosi salentini in effetti non presero molto bene il mio approdo al Bari: fecero fatica ad accettarlo inizialmente. Al contrario quelli biancorossi non diedero mai peso alle mie origini, anzi mi accolsero bene sin dal principio. Con loro si creò un feeling particolare fondato sulla stima reciproca. D’altronde ho sempre dato tutto in ogni partita, comportandomi da vero professionista e dimostrando attaccamento alla maglia, alla società e alla città, lì dove è nato anche mio figlio.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
La stagione 2000/2001 si concluse però con la retrocessione. Tu finisti anche fuori rosa: come mai?
Ci furono delle divergenze tra squadra e la proprietà. Per questo il presidente Matarrese e Fascetti decisero di mettere fuori rosa il capitano, ovvero me e il vicecapitano Francesco Mancini, in quanto rappresentanti dei malumori dello spogliatoio. Pagammo noi per tutti gli altri.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
A proposito di Mancini: lui è morto a soli 43 anni. Stesso destino di altri tuoi due ex compagni: Ingesson e Masinga, scomparso il primo a 46 anni e il secondo a 49. Come te lo spieghi?
È incredibile come tre dei componenti di quella squadra siano morti così giovani, ma si tratta solo di grande sfortuna. Vorrei spendere due parole per ricordare Mancini, di cui ero grande amico. Il primo impatto non fu dei migliori, perché lui era una persona chiusa, non sorrideva molto. Però durante il primo ritiro avemmo l’occasione di conoscerci meglio e diventammo grandi compagni dentro e fuori del campo. Io, lui, De Rosa e Neqrouz andammo a formare una difesa rocciosa e a tratti insuperabile. Perché Franco era un grande portiere: non a caso veniva soprannominato “the wall”, il muro.
© RIPRODUZIONE RISERVATA Barinedita
Scritto da
Claudio Mezzapesa
Claudio Mezzapesa