di Gianluigi Columbo

La "storia nascosta" di Berthold Uhlfelder: ebreo deportato la cui tomba giace nel cimitero di Bari
BARI – «Dal momento in cui mi sono imbattuto in Berthold mi sono sentito investito di una missione: sentivo di dover ricostruire la sua vita». Sono le parole di Pasquale Trizio, storico barese che grazie ad approfondite ricerche è riuscito a “ricomporre” l’esistenza di Berthold Uhlfelder: un tedesco di religione ebraica che dopo aver abitato a Bari fu deportato con tutta la sua famiglia in un campo di internamento. A guerra finita l’uomo tornò nel capoluogo pugliese dove morì pochi anni dopo, per essere seppellito in un angolo dimenticato del cimitero cittadino.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Una vicenda molto triste che è stata però riportata alla memoria da Trizio, che nel 2015 ha pubblicato sull’argomento il libro “La storia nascosta”, edito da Gelsorosso. A cui è seguito un omonimo cortometraggio a cura del regista Michele Giannini.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Abbiamo ricostruito con l’autore la vita di Uhlfelder. (Vedi foto galleria)

«Quando da piccolo andavo al cimitero a far visita a mio padre, scomparso prematuramente – esordisce Trizio -, la mia curiosità veniva sempre attratta da una lastra di marmo posta nelle vicinanze, con inciso un nome strano: Berthold Uhlfelder, nato a Norimberga. Con il passare degli anni continuai a rimanere affascinato da questo misterioso tedesco. Mi chiedevo come mai fosse sepolto proprio a Bari. E il caso volle che, mentre facevo alcune ricerche nell’Archivio di Stato, mi imbattessi in un vecchio faldone della Regia Questura aperto su una pagina in cui c’era l’elenco di tutti gli ebrei passati dal capoluogo pugliese durante gli anni della Seconda guerra mondiale. E all’ultimo rigo, per uno strano scherzo del destino, scorsi il nome di Berthold».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Uhlfelder era un avvocato tedesco di religione ebraica che lavorava a Berlino. Discendeva da una delle famiglie più nobili della Germania, proprietaria anche di una nota catena di negozi a Monaco di Baviera. La sua vita venne sconvolta dall’emanazione delle leggi razziali naziste, nel 1935, che legittimarono un ingiustificato odio nei confronti del popolo giudaico. Berthold, per sfuggire a un regime che si prospettava sempre più opprimente, decise così di fuggire in un altro Paese, scegliendo proprio l’Italia e Bari in particolare.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

«Si decise per la Puglia perché a Berlino aveva conosciuto l’ambasciatore Bernardo Attolico, conte del comune barese di Adelfia, un liberale non fascista da sempre amico degli ebrei - spiega l’autore -. Il diplomatico era a sua volta amico del marchese Lonardo Romanazzi-Carducci, nobile barese che possedeva una grande villa in via Capruzzi, oggi sede di un hotel di lusso, adatta a ospitare per il tempo necessario una famiglia bisognosa di aiuto».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Nonostante i suoi beni immobili fossero stati confiscati dai nazisti, l’avvocato riuscì quindi ad arrivare in territorio italiano attraverso un tesoretto ricavato dalla vendita di alcune sue residue proprietà. E nell’agosto 1936 la famiglia, composta dai coniugi Berthold ed Helena, dal figlio Fritz e dall’anziana suocera Elisa, giunse in macchina a Bari, dove si stabilì a Villa Romanazzi.

Nel capoluogo pugliese avviò un’attività di compravendita di pezzi di ricambio per autoveicoli, in via Brigata Regina e per due anni riuscì quindi a tirare avanti in un Paese straniero. Questo sino al fatidico 1938, anno in cui Mussolini si adeguò a Hitler emanando le famigerate leggi razziali.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)


Capendo che anche in Italia le cose si stavano mettendo male per gli ebrei, l’avvocato compì due scelte gravose. Fece partire il figlio Fritz con sua nuora verso il Portogallo, dove non avrebbe rischiato persecuzioni e decise di abiurare la sua fede. Si fece battezzare e successivamente sposare secondo il rito cattolico nella chiesa di San Rocco, in via Sagarriga Visconti, per eludere le limitazioni imposte dal fascismo.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Ma tutto ciò non bastò, perché gli Uhlfelder cominciarono a subire l’isolamento sociale: vennero addirittura costretti a non assumere una collaboratrice domestica italiana perché “di razza ariana” e quindi non adatta ad occuparsi di una famiglia considerata di “razza inferiore”.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

E nel 1940 arrivò la temuta comunicazione del Ministero dell’Interno: Berthold doveva lasciare Bari per essere deportato in un campo di internamento. Nello specifico quello di Campagna, vicino Salerno, mentre la moglie Helene avrebbe soggiornato in modo forzato ad Alfedena. La suocera Elisa invece fu destinata all’Aquila.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Questa drammatica situazione venne mitigata qualche mese dopo grazie alla concessione, da parte del governo, di riunire la famiglia nel capoluogo dell’Abruzzo. Lì dove la vita naturalmente non fu facile.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Gli Uhlfelder subirono le gelide temperature di montagna e la dura quotidianità fatta delle severe regole imposte nel campo. In più andarono incontro alla totale dissipazione del loro patrimonio per far fronte alle spese necessarie alla sopravvivenza.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

«L’internamento degli Uhlfelder terminò solo quattro anni dopo: il 16 ottobre 1944, quando le forze alleate sbaragliarono quelle tedesche durante la loro risalita per liberare l’Italia – sottolinea Trizio –. La famiglia decise così di ritornare a Bari, andando a vivere in un modesto appartamento in via Dalmazia, per coincidenza proprio a un isolato dalla casa in cui io abitavo da bambino».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Berthold si spense il 25 agosto 1946 dopo essersi ammalato a causa delle sofferenze, le ansie e le privazioni provate durante la prigionia. Poco prima, compreso che gli sarebbe restato poco da vivere, aveva scritto una poesia dedicata alla moglie Helene, che si concludeva così: «E quando l’ultima ora veramente suona e nulla della vita terrena rimarrà, allora ancora una volta deve sentirsi forte questa piccola canzone: ti amo».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Fu poi sepolto nel cimitero di Bari, ma non nella necropoli ebraica, che venne realizzata solo dopo il suo decesso.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
E il sepolcro, senza nemmeno una foto, da quel momento rimase anonimo e silenzioso, visto che gli Uhlfelder alla morte del capofamiglia avevano raggiunto il figlio Fritz in Portogallo, lasciando solo il povero Berthold.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

«Un oblìo che però ora, dopo tanti anni si è spezzato - interviene il regista Michele Giannini –. In molti, dopo aver letto il libro e assistito alla proiezione del film, si sono infatti recati nel cimitero di Bari per inondare di fiori la tomba del tedesco, che per tanto tempo era stata priva di colore e di “vita”. E questo grazie a Trizio, che è riuscito a riportare alla memoria la tormentata esistenza di Berthold, un uomo la cui unica “colpa” era quella di essere nato ebreo».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

(Vedi galleria fotografica)


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