di Giancarlo Liuzzi

Mòsce, Calandrìidde, Puzze, Filoscino: i nomi e la storia delle antiche osterie di Bari
BARI – Un grande camino annerito dal fumo, tegami e caraffe di terracotta, panche di legno d’ulivo illuminate da vecchie lucerne e, soprattutto, la semplicità della cucina casalinga. Erano questi i tratti distintivi delle antiche osterie baresi: posti che fino alla prima metà del 900 hanno rappresentato dei veri e propri capisaldi del folklore cittadino. (Vedi foto galleria)

I loro nomi andavano da “Buon bicchiere” a “Gatta”, da “Osteria del Filoscino” a “La locanda del Procaccio”, sino ad arrivare a “Calandrìidde”, “La mòsce” e “Puzze”. Luoghi di ritrovo frequentatissimi da tutti, senza distinzione di ceto sociale, che accoglievano pellegrini, marinai, commercianti, uomini di studio, militari e aristocratici.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

A regnare sulle tavole c’era del buon cibo e soprattutto tanto vino “sincero”: quello che aiutava gli avventori a trascorrere ore di brilla spensieratezza tra grida gioiose e partite a tressette, scopa e zumbariedde.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Un mondo ormai scomparso. Delle antiche locande sopravvivono infatti oggi a Bari solo l’Osteria Paglionico in strada Vallisa (del 1870) e l’Osteria delle Travi il Buco in largo Chiurlia (del 1906). Ma entrambe, seppur conservando uno stile e un menù tradizionale, si sono trasformate nel tempo in veri e propri ristoranti.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Per rivivere le glorie conviviali dei secoli passati (e limitandoci alle attività nate entro la fine dell'800) ci siamo così affidati al volume “I tabernacoli baresi dell’onesto peccato”, scritto nel 1972 dallo storico della gastronomia Luigi Sada.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Il libro racconta che già il poeta latino Orazio gustò del pesce fresco in una non precisata taverna barese tra il 38 e il 37 a.C., ma il primo luogo di ristoro di cui si hanno notizie certe è quello un tempo situato all’interno dell’Ospizio dei Pellegrini, il quale offriva gratuitamente un posto dove dormire e mangiare ai tanti forestieri che giungevano a Bari per venerare il santo patrono.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Fondato dall’abate Elia alla fine dell’XI secolo si trovava in alcuni locali lungo la Muraglia, alle spalle di San Nicola. Anche se nel 1304 venne spostato ai piedi dell’attuale portico del Pellegrino (sulla piazza della Basilica), dove è rimasto in attività sino al maggio del 1915.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Il menù prevedeva minestra o maccheroni, pesce o carne, due uova, frutta, pane e vino. Ma nel corso degli anni il luogo andò via via decadendo. Lo storico Armando Perotti, alla fine dell’800, lo descrive infatti come un ambiente sudicio dove centinaia di persone erano pigiate come acciughe in un'unica camera e dalla cui cucina proveniva un odore di pesce andato a male.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Sempre di proprietà della Basilica e situata vicino alla chiesa era l’Hosteria de Sancto Nicola, nata nel 1513. La sua insegna, una statua in pietra del Santo di Myra, si trova oggi ad angolo tra strada Santa Teresa dei Maschi e strada della Torretta, lì dove probabilmente venne successivamente trasferita.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Agli inizi del XVII secolo il catasto generale di Bari riportava comunque circa 50 taverne e cantine disseminate in tutta la città. Una era il Buon bicchiere, posta nei pressi dell’attuale Molo Sant’Antonio e frequentata soprattutto da marinai. Un grande ramo d’ulivo assieme a un’insegna colorata faceva da ingresso al locale gestito da un certo Giovanni Urzo il quale, tra boccali disposti su un grande bancone in legno e tavoli barcollanti serviva fritture di pesce e carne di cavallo e di castrato cotta su fornacelle.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Svolgevano un’importante funzione poi l’osteria di Marco Bressani e la Gatta, dove venivano serviti quei forestieri che, durante la peste del 1656, provenivano da luoghi infetti. La prima, che rimase attiva sino al 1919, si trovava all’inizio di via Napoli e comprendeva un grande orto con palmento. La seconda invece, di proprietà di Cola Nisio, apriva le sue porto ad angolo tra via Lombardi e via Villari.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Nel 700 fu la volta della Locanda del Procaccio gestita da Antonio Greco, che sorgeva nei pressi dell’attuale Dogana a ridosso del Porto. Qui, soprattutto durante la festa di San Nicola alloggiavano molti pellegrini con lo stesso trattamento del già citato ospizio nicolaiano. Fu poi trasformata in gendarmeria nel 1828.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)


Arriviamo così all’800, secolo in cui l’apertura delle osterie era annunciata da un banditore ingaggiato dal proprietario del locale. Quest’ultimo girava tra le strade principali della città, a volte accompagnato da un suonatore di organetto, offrendo vino ai passanti per invogliarli a provare la nuova attività.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Nel 1884 nacque, nei pressi dell’attuale spiaggia di Pane e Pomodoro, la rustica Osteria del Filoscino creata da Andrea Ricco soprannominato fafuèche. Parliamo di un enorme casotto di legno arredato con panche e tavoloni lunghi tre metri illuminati da lucerne pensili. Il menù restò invariato per oltre 30 anni: pesce crudo, minuicchi (cavatelli) col ragù, frittura mista, nghmiridd e testa di agnello arrostita. Oltre alle rinomate brasciole, così tanto richieste che era necessario uccidere due cavalli al giorno per accontentare tutti gli avventori.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Altro luogo diventato leggendario fu La Mòsce, simbolo di quella zona situata tra via Brigata Regina e via Napoli conosciuta come “Guaragnèdde”.

L’osteria venne aperta a fine 800 da Nicola Angiuli e da sua moglie Anna soprannominata appunto “la mòsce” perché così venivano definite le persone il cui viso era stato deturpato dal vaiolo. Un locale semplice quanto accogliente dove un’insegna sorretta da due pali recitava ddo non ze more ma’ (qui non si muore mai). I tavoli e le panche erano disposte all’ombra di alcuni alberi ed era possibile mangiare con il mare di fronte.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

A farla da padrone era il pesce fresco: triglie di scoglio, totani, polpi arricciati, scampi e baccalà fritto, che resero la locanda celebre in tutta la città fino alla sua chiusura nel 1965. Al civico 140 di via Brigata Regina si nota ancora la piccola porta in metallo arrugginito che un tempo dava accesso al locale.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Nella città vecchia poi risuona ancora oggi il nome della cantina di Calandrìidde, l’appellativo con cui veniva chiamato Gaetano Dentamaro, colui che la fondò nel 1860 in corte Alberolungo, vicino alla Basilica di San Nicola. Quel soprannome le fu dato perché Gaetano ogni giorno si affacciava sulla strada per decantare il suo vino: da qui Calandrìidde, ovvero colui che cinguetta come l’uccello calandra. Anche se alcuni sostengono l’appellativo derivasse dal fatto che questi uccelli venissero serviti nell’osteria.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

All’inizio del 900 l’attività (che poteva contare anche su due succursali in via Madonna dell’Arco 11 e alla strada Tre Cantaie 34), si spostò nel suggestivo cortile di palazzo Nitti Valentini in piazzetta 62 Marinai.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Alla morte di Gaetano la cantina passò ai discendenti che la mantennero attiva solo per la vendita del vino. Venne successivamente gestita, fino alla sua chiusura negli anni 90, da Ferdinando e Gaetano Allegrezza, quest’ultimo chiamato ancora oggi da tutti Nanìne du mmìire (Nannino del vino).Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

E proprio uno dei figli di Dentamaro, Michele, fondò alla fine dell’800 l’osteria di Puzze. Il locale prendeva il nome dalla posizione in cui si trovava e cioè a ridosso del pozzo fatto costruire nel 500 dalla regina Bona Sforza, alle spalle della Cattedrale di San Sabino. Meta prediletta per baccanali che si protraevano fino all’alba,  serviva trippa con fagioli, montagne di fritture di pesce, carciofi e ortaggi di ogni genere e infiniti boccali ricolmi di vino.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Chiudiamo il nostro viaggio alle spalle del Teatro Petruzzelli, dove fino al 1921 si trovava l’osteria-birreria Stella d’Italia, creata nel 1899 da Rocco Corisi. Era qui che cenavano gli artisti dopo gli spettacoli, gustando il piatto più rinomato del posto: la pizza Margherita o Tricolore di Gennarìelle (vero pizzaiolo napoletano). Ma era possibile mangiare anche frutti di mare, brasciole, tordi nzùlze e salsiccia al fornello. Un luogo in cui, così come gli altri citati, “il barese si rivelava quale veramente è, libero più che in casa propria”.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

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Giancarlo Liuzzi
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  • Nicola Cutino - Complimenti, Giancarlo. Grazie per le Tue dettagliate e preziose notizie presentate con chiarezza e bello stile accattivante. Lungo è l’ elenco delle antiche cantine ed osterie presenti in Bari Vecchia. Luigi Sada effettuò una meticolosa ricerca, riportata ed integrata nel libro della Levante Editore “Bari Vecchia con note di toponomastica, storia e folklore” del compianto amico Filippo Bitetto. Mi piace, partendo da codeste documentazioni dove sono elencati anche i proprietari e la sede dell’ esercizio commerciale, elencare altre locande, cantine, osterie tra le quali: quella de u (leggi du) Vettàre, de Vezzùse, d’ Azzàrre, de Ceccherìdde, de u Gridde, de Carna toste, de Cilze russe, de Pane e auì, de Peppìne ficchètte, de Piste piste, de Cacametànde, de Cacachièssie, de Gamme de pèghere, de Giue Giaue, de Scimmiòtte, de Chenùnne (1893), de Capillerìzze, de Iannìne de Venànzie, de Iannìne caccà, de Cianna Cianne, de Babbìsce, de Calandrìdde (1860), de la Vaddìse (1919), de Puzze (1556). Molte di queste cantine del nostro Centro Storico, insieme alla vendita del buon vino (mirre teste) servivano agli avventori: fasùle e paste che le còdeche, cìgere e paste, ndrame a stòzzere (intestini degli equini) a u (leggi o) sughe o arrestùte, brasciòle de carne de cavàdde, fegatìdde, ghiemmerìdde, sgagliòzze, popìzze, fenùcche, rafanìdde, chiacùne ed altri sopatàue oltre al pane fresco casereccio. Era possibile in quei locali, come giustamente hai rilevato, caro Giancarlo, praticare anche il gioco de u “zembarìdde”.
  • Vito Petino - ---Non capisco perché insistete con un dialetto, che pochi scrivono a quel modo. Se seguite lo scritto di gente comune, non annoverata in alcuna accademia con regole che nessuno del numerosissimo popolino dei baresi veraci mette in pratica, avreste più seguito. Tanti scritti in vernacolo, anche qualche commedia, troverete su FB nel gruppo VERNACOLO BARESE POPOLARE, tutti col sistema senti e scrivi. Personalmente scrivo praticando lo stesso principio con cui tutti scriviamo l'italiano, che è la lingua per eccellenza che più segue la fonetica, traducendola con immediatezza nei rispondenti simboli grafici noti. Se dico cucina, scrivo cucina, nè più ne meno. Cosa che facciamo noi linguisti ignoranti ma puri e spicci. Se nel dialetto barese pronuncio chccin per il termine cucina, perché sporcarlo con e contorte, che si scrivono e non si dicono (già questa operazione sa tanto di mattezza), e se s'aggiungono gli accenti per indicare le e che invece si devono pronunciare, sembra proprio da matto che vuole infilare l'indice nel cerchio formato da pollice e indice stesso. Macario non vi riuscì in vita, e dopo la morte sta ancora tentando, nonostante il Signore gli abbia detto che è operazione impossibile. A me piace la strada savia, se c'è chi preferisce quella folle, si accomodi pure...
  • Alfredo Giannantonio - Bellissimo articolo, grazie a tutti voi che mantenete viva la storia della città, sono molto importante il vostro impegno e la vostra testimonianza
  • Gianfranco Liuzzi - Ottimo.... Forse il migliore di tutti... Credo che questa sia la vera anima di Barinedita...
  • Emanuele Zambetta - Articolo molto interessante! Consiglio però alla redazione di apportare una modifica al titolo. In dialetto barese è fondamentale distinguere sc/sci da ssc/ssci (scempio e rafforzato). La trascrizione corretta è "Mossce". Altrimenti, per esempio, come distingueremmo "rasciòne" da "cassciòne"?... P.s.: fate benissimo a non sostenere l'anarchia nell'àmbito grafematico. Un caro saluto.
  • Emanuele - Io ricordo una osteria di nome " Sfissone" ma potrei non ricordare bene il nome, dalle parti di via Ravanas negli anni 50/60. Mi ci ha portato un paio di volte un mio zio e si mangiava pasta e ceci o pasta e fagioli. Ma non è citata nell'articolo.


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