Virtus Palese, la società rosso-blu che ha riportato il calcio nell'ex frazione di Bari
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mercoledì 13 dicembre 2023
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di Armando Ruggiero - foto Fabio Voglioso
Tra questi, come detto, c’è la Virtus Palese, squadra che con orgoglio rappresenta l’ex frazione a nord di Bari divenuta quartiere cittadino nel 1970.
Una società nata con l’obiettivo di riportare a Palese il calcio, sport che mancava da diversi anni. Sia infatti la Libertas (ex Ac Palese fondata nel 1965) che la Giovanile (del 1968) erano state sciolte all’inizio del nuovo Millennio dopo decenni di attività. È stato l’imprenditore Giuseppe Milella a decidere di far rotolare nuovamente il pallone da queste parti, creando nel 2019 la prima squadra della Virtus.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Compagine che attualmente milita nel campionato di Promozione disputando le partite interne nello storico stadio “Gioacchino Lovero”, inaugurato nel 1978. Ed è proprio nell'impianto di via Tenente Ranieri che siamo andati a trovarla durante una sessione di allenamento serale. (Vedi foto galleria)
Una volta entrati nel complesso sportivo, ci ritroviamo di fronte a un campo in erba sintetica arricchito da una piccola tribuna che accoglie i tifosi. I giocatori sono impegnati in vari esercizi e indossano un completo rosso e blu: i colori sociali della squadra.
Siamo subito accolti dal presidente, il 45enne Giuseppe Milella, originario di Palese. «Sono stato sempre appassionato di calcio - ci racconta – ma soprattutto sono legato a questo territorio e ritenevo assurdo che il rione non avesse più una sua squadra. Così ho deciso di fondarne una con il sogno di portare il quartiere lì dove non è mai arrivato nella sua storia: in Eccellenza».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Dell’ex frazione è anche il 42enne direttore sportivo Vito Lavermicocca. «Palese è un rione di Bari, è vero, ma noi ci sentiamo un Comune a parte: abbiamo una storia diversa da quella del capoluogo pugliese – tiene a sottolineare il dirigente -. Basti pensare che, in occasione della festa del “nostro” patrono San Michele Arcangelo, ogni anno si tiene un torneo tra le squadre che rappresentano le diverse contrade del borgo. È quindi motivo di orgoglio per tutti noi aver riportato qui il calcio “che conta”».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Inizialmente la Virtus si è dedicata esclusivamente al settore giovanile. «Abbiamo iniziato nel 2012 con venti piccoli, ora siamo in trecento», ci dice il presidente mostrandoci i vari trofei vinti dai ragazzini. «Il nostro vivaio è stato puntato dall’Atalanta, società a cui ci siamo affiliati - aggiunge Lavermicocca -. Se la società bergamasca dovesse mettere gli occhi su qualche giovane avrà il diritto di prelazione sull’acquisto».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
La prima squadra si è invece formata come detto nel 2019. Tra i “veterani” c’è il 32enne capitano Donatello Mincuzzi. «Sono al mio terzo anno qua - racconta – e abbiamo creato un bel gruppo. La domenica pranziamo tutti insieme e poi torniamo al Lovero per fare la rifinitura o prendere il pullman per andare in trasferta. È questo un rito che ci ha permesso di compattarci».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Squadra che attualmente è guidata dal 52enne mister Cosimo Lopraino e dal suo secondo: il 56enne brasiliano “Gegè” Gerson, ex calciatore che ha vestito la maglia del Bari tra gli anni 80 e 90.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
«Vivo da molti anni tra Palese e Santo Spirito - ci racconta il sudamericano -. Nel 2016 Milella mi chiamò chiedendomi se volessi allenare una formazione di ragazzini: accettai immediatamente. Rimasi sino al 2019, anno in cui mi sono trasferito al Lodigiani. Ma nel 2022 è arrivata una nuova offerta dal presidente e sono quindi tornato per aiutare il mister in prima squadra, oltre che per allenare in un settore giovanile che ritengo di eccellenza. Qui sto bene, la gente mi conosce e mi fa sentire amato».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Quella gente, i palesini, che hanno molto a cuore la loro squadra. «Sono sempre stato vicino alle società che rappresentano il borgo, che si chiamino Virtus come oggi o Giovanile e Libertas come ieri - ci rivela il 58enne tifoso Tommaso De Rasmo -. Riguardo alla Libertas ricordo con emozione lo spareggio contro il Bitetto, nel 2007, per salire in Prima Categoria. La sede prescelta per la finale fu Locorotondo. Eravamo quattrocento supporter e ci organizzammo in tre pullman per raggiungere lo stadio. Perdemmo, ma fu davvero entusiasmante. Da quando si è riformato il club vengo spesso al campo per assistere agli allenamenti e ovviamente non perdo neanche una partita in casa del mio piccolo Palese».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
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I commenti
- Vito Petino - IL RITO D’INIZIO DI UNA PARTITA Pensando al calcio quasi pionieristico della mia età verde, tanti ricordi mi s'affolano alla mente, e come coriandoli policromi cascare su foglio. Io continuo a preferire il calcio povero, ma tanto ricco dentro del puro entusiasmo dei campi di provincia. Insomma quello dilettantistico che abbiamo giocato noi per pochi simbolici spiccioli; quello della nostra generazione senza scuole di calcio, né accessori sfarzosi; quello semplice, dall’anno 54 al 74. Se qualcuno pensa a un calcio tutto campanili, alla viva il parroco insomma, si sbaglia alla grande. Ho visto più preziosità nei campi minori che a mondiali, europei e campionati maggiori. Vent'anni pieni, meravigliosi, stupendi, indimenticabili, sino al punto da ricordare con amore anche strappi, ferite ricucite, fratture, convalescenze. È più forte di me la sensazione di vuoto che provo ripensando a quegli anni; scendere in campo mi manca tanto. La domenica in mattinata era pur bello ritrovarsi nella sede sociale e partire con i compagni e dirigenti nel pulmino della società; scherzare fra noi, lungo il tragitto sino allo stadio, a frizzi e lazzi camerateschi. I più rilassati eran quelli col posto sicuro da titolare, soprattutto nel primo decennio, quando le sostituzioni non erano ancora introdotte. Alcuni sorridevano con malcelato nervosismo, incerti di essere fra gli 11 che sarebbero scesi in campo, e si distraevano sfottendo un po’ tutti con giochi scolareschi, a volte superando limiti di decenza con grevi scherzi da caserma. Più ci si avvicinava allo stadio e più gli incerti erano sulla graticola. L'allenatore rincuorava tutti, ma era pure lui assillato da dubbi, se far scendere in campo un ragazzo al posto dell’altro, sciogliendo le alternative solo nello spogliatoio. Capitava pure che il pulmino fosse in avaria dal meccanico. E allora il trasferimento al campo avveniva con tante auto personali incolonnate come per una gita fuori porta da lunedì di Pasqua. In trasferta invece la colonna di auto, con quelle dei tifosi al seguito, che pure nei piccoli centri non mancano mai, pareva simile ai partecipanti al cantagiro, senza la folla ai lati del percorso. S'arrivava al campo e, dopo il magro panino farcito con cibo tonico mangiato sul pulmino, a gruppi di tre, quattro andavamo a farci un caffè nel bar in piazza. Bar che in tutti i paesi di provincia avevano solo due nomi, appioppati senza fantasia dai rispettivi titolari. Bar dello Stadio, se vicino al campo, oppure Bar dello Sport nella piazza principale. Il rito sacrale della distribuzione delle maglie appese agli attaccapanni dello spogliatoio e successiva vestizione. Mi sentivo un altro con le personali scarpe Pantofola d’oro ai piedi e non il comune geometra degli altri sei giorni della settimana. L'appello dell'arbitro, guardandolo prima in faccia per farsi riconoscere dai cartellini e documenti d’identità che la società gli consegnava, e subito dopo dandogli le spalle per il controllo del numero di maglia dall’elenco della formazione consegnato insieme ai cartellini, infine l’obbligo di sfilarsi collanine o anelli che potessero far male allo stesso possessore o a un avversario; e finalmente entrare in campo dallo spogliatoio, o attraverso passaggi nelle reti di cinta intorno al campo oppure, attraversato il tunnel, salire dalla buca a livello terreno, di solito dietro una porta. L'odore eccitante dell'erba tagliata di fresco e imbellettata alla perfezione con polvere bianca senza sbaffi né sbuffi; disegni di linee, lunette, cerchi, semicerchi e dischetti ; sei bandierine, quattro guardiane severe e fisse in ogni angolo del campo e due che invece filavano sulle linee laterali nelle mani degli opposti segnalinee. Il quarto uomo era di là da venire, come pure la sostituzione di un infortunato col dodicesimo o il tredicesimo in panchina, all'epoca non previsti dal regolamento. Naturalmente, non sfuggono ai ricordi fondi di campi meno perfetti, come quelli brulli, che sotto la pioggia ci inzaccheravano di fango dalla punta delle scarpe ai capelli; o quelli ricoperti con polvere di carbone, altri con la tufina bianca e le linee di rosso o nero; oppure il peggiore di tutti, quel fondo campo calpestato spesso nei miei due anni lombardi, di cui ho tuttora nelle orecchie il crunch crunch del ghiaccio che si spezzava sotto i tacchetti; ghiaccio su cui cercavamo in tutta la partita di scaldarci i piedi congelati più che giocare a calcio, e tentare qualche entrata a scivolone era proprio impossibile, se non si voleva tornare a casa con le cosce segnate a sangue. Per noi che venivamo dal sud era più dura del ghiaccio stesso giocare su quel fondo, più adatto all’hockey se non fosse per le gibbosità appuntute del manto ghiacciato. Quando nevicava, invece, ho tuttora chiaro il suono ovattato del pallone calciato, i suoi rimbalzi soffici, l’impatto sordo contro pali o traverse, le voci in campo attenuate. Riprendendo la descrizione del rito di inizio gara, appena sul terreno di gioco si passava scalpitanti alla ricognizione delle porte, nei miei primi anni in legno pieno quadro, sostituite poi da quelle in tubolari di ferro, e delle reti, nella cui nicchia si recitava la rituale preghiera al Signore, invocando un proprio gol e che fosse quello della vittoria. Sognavamo pure l’improbabile tripletta nella forma più varia e completa, una rete di sinistro, una di testa e la terza di destro; anche se io lo usavo pochissimo, ma di totale sostegno al sinistro. Intanto ci si allenava a scuotere le reti di quelle porte, in cui si piazzava provvisoriamente un attaccante per provare l’ebrezza del ruolo più pazzo del calcio; ma i palloni d'allenamento che ci passavamo entravano tutti in rete, sino a quando il portiere titolare non prendeva posizione a scaldarsi mani e muscoli. E quando in partita il sogno si realizzava anche per un solo gol, la gioia più grande d'ogni calciatore era correre come un puledro pazzo per tutto il prato con negli occhi l’immagine stoppata della palla in rete; la sua corsa veniva subito interrotta dai compagni che l’inseguivano e, raggiunto anche da allenatore e dirigenti accompagnatori, seppellito sotto i loro abbracci, sino all'orgasmo finale nel sentire i loro cuori insieme al proprio accelerare per la troppa gioia del gol, che aveva sì un autore, ma in pratica era proprietà collettiva, ché come gioco di squadra è l'essenza condensata di questo impagabile sport. Pure qualche portiere ha provato quella gioia. Capitava che, per evitare una sconfitta, negli ultimi minuti si mimetizzasse fra i tanti calciatori delle due squadre in area avversaria, per provare a raddrizzare un risultato ormai compromesso, provando una gioia superiore anche alla parata d’un rigore, quando gli riusciva di mettere la palla in rete. Ogni minimo particolare di una partita è ben custodito nella mente; l’unico che mi sfugge, pur sforzandomi, è il ricordo del pubblico; mi viene a galla soltanto una macchia multicolore indistinta sugli spalti, che in tre occasioni mi ha anche fatto paura, costringendoci a restare assediati negli spogliatoi sino alla mezzanotte, salvati dalle forze dell’ordine, accorse da centri vicini. Altamura, Sannicandro e Castellana furono i tre campi che ci videro chiusi negli spogliatoi; località in cui, per puro caso, il risultato era stato sempre lo stesso, 3 a 2 in nostro favore (nda per la cronaca, la squadra in cui giocavo che conseguì le tre vittorie esterne era la Pro Inter Bari, che cambiò nome in San Paolo Bari, che poi si fuse col Palese). Non ho mai giocato per il pubblico, ma solo per l’unica bellezza in campo che ti esalta sino alla gioia massima, la vittoria. Non c’è mai stato nel calcio un giocatore che, entrando in campo, qualsiasi avversario avesse di fronte, anche di categoria superiore, non mirasse a vincere. Almeno io l’ho sempre pensata così, anche quando ragazzino, in allenamento a Milano, avevo di fronte grandi campioni della massima serie. No, state tranquilli, non ho dimenticato il momento più trepidante prima della gara, l'incontro col pallone. L'oggetto dei desideri di ogni calciatore, o meglio di ogni amante del calcio. Domenicalmente il signor Pallone si presentava nella sua veste nuova, e strapazzarlo o mazzolarlo, come alcuni ruoli richiedono, non era per giocatori di fino; personalmente accarezzavo la sfera di cuoio come si può accarezzare la pelle vellutata di un bella rotondità femminile. Un tocco e via, un lancio e il pallone, come cometa, si posava preciso sui piedi del compagno più libero a illuminargli la porta avversaria. Non so se fosse un mio limite, ma mi han sempre fatto rivoltare dentro alcuni allenatori fortemente disturbati; per la verità ne ho incontrati pochissimi fortunatamente, e solo in lega giovanile, che mi gridavano da bordo campo “Petino, dall all gamm a cudd!!!” Io avrei dovuto picchiare un mio avversario solo perché mi aveva tolto il pallone. Mai! Ho sempre prediletto il gioco pulito, anche quando mi toglievano la palla in contrasti irregolari. Persa la palla, inseguivo l’avversario sino a togliergliela in maniera netta e senza fare fallo. Prova del mio giocare corretto è la sola espulsione in vent’anni di carriera, a dire il vero ricevuta più per un abbaglio dell’arbitro che per scorrettezza mia e dell’avversario. Campo di Carbonara, tackle robusto a centrocampo con Zezza mediano del Carbonara; finiamo entrambi seduti sul terreno con la palla che ballonzola fra i quattro piedi, ognuno prova a calciarla verso un compagno, l’arbitro fischia convinto che ci stessimo scalciando e ci espelle. Uscimmo dal campo abbracciati, io e Zezza, convinti della nostra innocenza. Ma a nulla valse; saltammo la partita successiva. E torniamo al signor Pallone. C'è qualcuno che possa dire di non averlo mai accarezzato a inizio gara per ingraziarselo? Quanti di noi usavano con lui il "lei" e ne avevano il massimo rispetto. Che dire dell'emozione del prepartita, che non prendeva solo gli incerti di far parte dell'undici titolare. Io stesso, che pure avevo il posto fisso nella squadra in cui ho giocato i miei ultimi undici anni di calcio ufficiale, io stesso ero preso dal batticuore da stress dell'attesa, che si scioglieva solo al fischio del calcio d'inizio, lasciandomi dentro soltanto la sana carica agonistica per affrontare al meglio la gara. E dopo il lancio della monetina che l'arbitro effettuava per la scelta del campo, seguita dallo sguardo interessato dello stesso arbitro e capitani (ruolo quello del capitano che avevo in uggia, ma che per una sola volta ho dovuto ricoprire per motivi di forza maggiore); segnalata dai capitani la metà campo prescelta, ecco i 22 schierarsi, e al fischio d’inizio molti, gli occhi rivolti al cielo, si segnavano con la Croce. Il 9 che mi passa il pallone in avanti (deve essere cambiato il regolamento; non solo la numerazione è da gioco del lotto, ma vedo che oggi il pallone dal dischetto di centro campo lo si può dare anche all'indietro), dicevo, il 9 che mi passava la palla in avanti verso sinistra e via a corrergli dietro per 90 minuti e oltre, con la più grande gioia nel cuore, che solo la giovinezza e lo sport più bello del mondo sanno dare ⚽️❤️🤝❤️⚽️️...