di Giancarlo Liuzzi

Ex Palazzo della Gazzetta: i retroscena del più grande delitto architettonico avvenuto a Bari
BARI – L’abbattimento del “Palazzo della Gazzetta” che dominava un tempo con il suo maestoso prospetto liberty la piazza della Stazione di Bari, è unanimemente considerato il più grande delitto architettonico compiuto nel capoluogo pugliese. (Vedi foto galleria)

Ma i motivi della sua rapida scomparsa, nella notte di ferragosto del 1982, continuano a lasciare a distanza di 40 anni dubbi e incertezze. Come andò veramente quel giorno? Chi decise per la distruzione di questo capolavoro? E perché le istituzioni non fecero nulla per intervenire? Oggi abbiamo finalmente cercato di dare delle risposte a queste domande. Prima però facciamo un passo indietro.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Il Palazzo della Gazzetta, progettato dal grande architetto Saverio Dioguardi, fu inaugurato il 28 dicembre del 1927 nella centralissima piazza Roma (oggi piazza Moro).

Sviluppato su quattro piani, l’edificio, accanto ai motivi consueti del suo creatore (il bugnato basimentale e gli accurati rilievi plastici), presentava un corpo angolare sormontato da una cupola conclusa in sommità da un’altana e da un globo luminoso. Si trattava quindi di un sontuoso esempio di liberty ed eclettismo (misto tra neoclassico e neobarocco), che sfidava in magnificenza il vicino e coevo Mincuzzi di via Sparano.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

A volere la sua realizzazione fu la Gazzetta di Puglia (erede del Corriere delle Puglie di Martino Cassano), fondata nel 1922 da Raffaele Gorjux assieme ad altri imprenditori e intellettuali e finanziata dal Banco di Puglia. Un giornale che, rappresentando l’unico quotidiano regionale, divenne una colonna portante dell’editoria meridionale.

Questo successo convinse i proprietari a dotarsi di una prestigiosa sede nel cuore del murattiano, posta nei pressi di quella Stazione Centrale da cui partivano i treni che avrebbero avuto il compito di distribuire le copie in tutto il Paese.

E il giornale per l’occasione cambiò nome, trasformandosi nella Gazzetta del Mezzogiorno: quotidiano che dal quel momento venne scritto ed editato nel neonato edificio che in poco tempo si assurse a simbolo indiscusso della stampa locale.

Passarono 45 anni. Il mondo editoriale stava cambiando e necessitava di nuove attrezzature e tecnologie. Fu subito chiaro che nel futuro non ci sarebbe stato posto per quel vecchio Palazzo che, per quanto glorioso, era diventato strutturalmente troppo obsoleto e non al passo coi tempi. La proprietà decise così, nel 1972, di trasferirsi nella più moderna sede di via Scipione l’Africano, lasciando in piazza Roma soltanto alcuni uffici di rappresentanza.

Fu l’inizio della fine per l’opera di Dioguardi, che si ritrovò praticamente disabitata. Non solo, negli anni 70 una pesante crisi economica causò grosse perdite economiche all’editoria nazionale. Alcuni giornali chiusero e la Gazzetta si ritrovò sull’orlo del fallimento. Intervenne però il Banco di Napoli (che nel frattempo aveva assorbito il Banco di Puglia) che concedette alla testata un grosso finanziamento, garantendosi in cambio l’acquisizione della quota maggioritaria delle azioni.

Nel contempo (era il 1978), venne creata su consiglio del deputato Aldo Moro una nuova società che si doveva occupare della stampa: la Edisud. La nascita di quest’ultima permise l’ingresso nella direzione di figure nuove e facoltose, tra i quali l’imprenditore Stefano Romanazzi, titolare dell’omonima industria meccanica situata in via Omodeo, ai piedi del ponte che collega San Pasquale a Japigia.


I guai finanziari furono così risolti, ma rimaneva il problema del Palazzo che, ormai pressoché inutilizzato, abbisognava comunque di grosse spese di mantenimento. Tra l’altro, a cinquant’anni dalla sua realizzazione, l’immobile necessitava anche di una decisa ristrutturazione.

I proprietari insomma aspettavano soltanto una buona occasione per liberarsi di quello che veniva considerato un “impiccio”. A intervenire fu proprio Romanazzi, il quale intuendo un possibile affare, rilevò il fabbricato dal Banco di Napoli con l’idea di abbatterlo per costruirci al suo posto un nuovo edificio.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Ciò che praticamente avviene dal Dopoguerra in poi a Bari, città che in mancanza di piani urbanistici generali e di vincoli paesaggistici, continua ad assistere alla demolizione di immobili antichi, sostituiti da moderne e discutibili opere. Il tutto considerando l’assenza in Italia di leggi che tutelano le dimore storiche private.  

A comprare da Romanazzi il nuovo stabile a vetri progettato dall’architetto Beniamino Cirillo sarebbe stata un’assicurazione di Milano, che però non si accontentò di acquisire solo il “piccolo” spazio occupato dalla Gazzetta, ma fece in modo di garantirsi l’intero isolato. L’imprenditore barese dovette così acquistare anche l’adiacente Hotel Roma, oltre alla sede delle Ferrovie sud-est di via Zuppetta, al fine naturalmente di buttare tutto giù e offrire un’area interamente edificabile ai ricconi venuti dal Nord.

«Posso confermarlo – ci rivela l’83enne ingegnere Giandonato Disanto -: quell’albergo era di mio padre e tutta la mia famiglia si occupava della sua gestione. Romanazzi si presentò da noi con un’offerta irrinunciabile: non ci restò che accettarla e vendemmo così l’hotel sapendo che sarebbe stato di lì a breve demolito».

E nel 1982, in una silenziosa e calda notte di ferragosto, quell’isolato sparì per sempre. «Lo ricordo ancora bene – racconta l’archeologa Raffaella Cassano nel libro “Goodbye Murat” di Nicola Signorile -. Stavo andando in stazione, era l’alba e rabbrividii quando mi accorsi che tutto era stato distrutto: agli operai non restava che smontare i telamoni ai piedi dell’antico Palazzo e poi quell’edificio sarebbe scomparso nel nulla».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Le statue di cui parla la testimone sono i quattro splendidi telamoni inginocchiati che, inglobati nei vani delle finestre a pianterreno, per decenni avevano “sorretto” l’antico stabile. Ad oggi sono l’unica testimonianza rimasta del capolavoro di Dioguardi, ma anch’esse hanno rischiato di essere dimenticate.

«Era il dicembre del 1988 – rammenta Franco Neglia dell’associazione culturale “Murattiano” -. Passeggiando sul ponte di via Omodeo notai le sculture abbandonate all’interno delle Officine Romanazzi. Fu un colpo al cuore, fotografammo tutto e pubblicammo un articolo».

La notizia fece un po’ di clamore ma non provocò particolari reazioni. Anche se dieci anni dopo, nel 2007, il figlio dell'imprenditore decise di donare le statue alla città. L’amministrazione cittadina scelse così di trasferirle nell’androne del Comune, dove venne adibita una sorta di “camera mortuaria” dedicata al Palazzo liberty di Dioguardi. Una stanza che è ancora lì e dove, con tristi immagini in bianco e nero, è possibile ripercorrere la storia dell'indimencabile “grande scempio”.

(Vedi galleria fotografica)


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Giancarlo Liuzzi
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  • Mara - Io mi vergognerei a scrivere qualcosa sulla famiglia Romanazzi senza conoscere la verità ed i veri motivi. Così come l’albergatore che ha tranquillamente ricevuto i soldi che ha chiesto per la vendita. Poteva evitare di prendersi i soldi, nessuno l’ha obbligato. Dopo 50 anni , qualcuno si permette ancora il lusso di sparlare di cose che non ha vissuto. Se è carente di argomentazioni per scrivere qualcosa, cerchi da un’altea parte e il figlio, i Telamoni li ha regalati alma città senza alcuna ricompensa. Si vergogni di offendere chi non ha mai conosciuto. Parli di altro se ne è capace. Qualcosa di più attusle
  • NICOLA PERCHIAZZI - Mi ha fatto male leggere il commento di Mara. Una classica reazione di un barese tipico e di medio bassa cultura. Abbiamo visto tutti, che fine ha fatto la famiglia d'imprenditori: la crisi economica, le scelte industriali sbagliate, il lusso e le distrazioni femminili hanno fatto dissolvere un patrimonio molto consistente e lasciato senza lavoro centinaia di famiglie. In ogni caso la colpa è anche della politica locale: avida ed attenta principalmente a ricavare benefici personali, favorendo speculazioni a danno della cultura e la storia della nostra città. Per inciso: i Telamoni li hanno regalati a seguito del clamore suscitato. Quasi viene da pensare che non ne potevano fare a meno!
  • Stefano - Non scendo nel merito dei commenti espressi dai due miei ex concittadini. Posso dire che, in generale, nella mia ex città natale, vale il vecchio detto che nel passato veniva recitato da alcuni anziani: "U Padre Etern da u pan a ci non tene le dint " purtroppo gli aspetti culturali e l'uso della storicità delle cose non rientra nella cultura di molti miei ex concittadini; quello che conta è solo il dio danaro. Questo vale anche per le masserie storiche presenti in terra di Bari di cui, tra l'altro, da un pò di tempo se ne sta occupando (solo per aspetti culturali) Striscia La Notizia. Io ho una piccola porzione di masseria storica di fine 600 inizi 700; vivo al Nord da 40 anni e nel 2008, con la speranza di stimolare altri comproprietari , provvidi a far restaurare la mia porzione imponendo il mantenimento estetico storico esterno ed interno. Risultato??? Gli altri comproprietari, che tra l'altro non la utilizzano, è come se fossero tutti deceduti. In questi casi dovrebbero intervenire le istituzioni locali e regionali per salvaguardare il nostro patrimonio storico ma ho dei seri dubbi nella mia amata ex citta e regione natale il livello culturale delle istituzioni comprendano certi valori. Per fortuna esiste la Vostra presenza che sta evidenziando tante di queste gravi perdite. Grazie
  • Orsi Vincenzo - Ancor oggi si parla dei Telamoni come opera dell'arch. Dioguardi. In realtà le statue furono realizzate dallo scultore barese, bersagliere Agostino Lattanzi , autore anche di altre opere qui a Bari (Cippo Bersaglieri Sacrario Caduti Olremare, Capitelli colonne chiesa Santa Fara, Restauro statue sommità Teatro Petruzzelli, Stemma cavalluccio marino CUS Bari, ecc.)
  • Vito Petino - La cupola luminosa della Gazzetta, con quella simile di Mincuzzi e il Faro di San Cataldo, erano tre occhi notturni, che dominavano la Bari rasoterra degli anni 50. L'avidità di imprenditori che fecero fortuna non per meriti propri, ma trasportati dalla corrente del boom economico che beneficiò il Paese. Tant'è che, all'esaurirsi di quella ondata di moneta pubblica, tutti fallirono. Solo gli imprenditori veramente capaci riuscirono a continuare la navigazione finanziaria con energie proprie. Sfortuna volle che la Gazzetta capitasse in mani bucate, mani incapaci a procurarsi ricchezza con le proprie forze. La rapacità di gente usa ai piaceri più frivoli di una vita debosch fu la scintilla che fece saltare in aria il prezioso e amato palazzo della Gazzetta, per il dispiacere dell'intera cittadinanza. Dunque, non imprenditori venuti dal nord furono la causa prima della fine di quel simbolo insostituito di Bari, ma locali imprenditori camionisti, che avevano messo le mani sulla Gazzetta da poco tempo, e con la connivenza di politici romani e locali, arraffarono tutto il resto dell'intero fabbricato. Il mio personale dispiacere sorge per il coinvolgimento in quella fine dell'ala sinistra del palazzo, in cui aveva sede la Suddest, ferrovia dove il mio Babbo aveva lavorato per un bel tratto di vita. La facciata principale col maestoso ingresso s'affacciava su piazza Roma e non come erroneamente riportato nel servizio, in via Zuppetta, che era a destra del Palazzo. Peccato, quante volte sono andato a trovare mio padre, quando vi lavorava, oppure a sbrigare per lui incombenze di finanza familiare, come ritirare le tessere ferroviarie, oppure i buoni per l'acquisto di merci con negozi del centro convenzionati con la Suddest. Qualche volta il 20 del mese per richiedere acconti sullo stipendio. Ricordo che a fine anni 40 il Cral dopolavoristico organizzava, il 6 gennaio al primo piano della Direzione di piazza Roma, la distribuzione dei doni ai figli degli agenti. Come si sia potuto perpetrare uno scempio simile è doloroso tormento per chi ama l'arte del costruito. Si parla dei Telamoni salvati, ma che fine hanno fatto il grande portone ad arco in legno pregiato e cristalli, i marmi preziosi dei pavimenti e dei gradini dell'ampia scalinata interna, corredata da una ringhiera in ferro battuto della migliore art déco, e le porte interne in legno lucido, gli splendidi lampadari delle stanze e soprattutto quello enorme nell'androne d'ingresso. Tutti arredi di qualità e pregio voluti dal maggiore azionista della Suddest, il compianto marchese Bomprini di Roma...
  • Vito Petino - Nel mio commento precedente ho notato dopo, che il sistema mi ha cancellato la frase che completa il concetto, al secondo punto "beneficiò il Paese.", va corretta come più sotto riportata con esattezza. Se fosse possibile aggiungerla in modo che sia "beneficiò il Paese, ha portato alla demolizione dei più bei palazzi d'epoca." Grazie...
  • Ing. Salvatore Bagnato - Salve! Ho il dubbio che l'abbattimento non sia avvenuto nel giorno di ferragosto. Vi dico perchè. In quei giorni io mi recavo a Brindisi perchè ero commissario per gli Esami di Stato. Avevo preso il treno la mattina verso le ore 6; nel primo pomeriggio ero sul treno per rientrare a Bari. Ero ovviamente un po' assonnato ed ad un certo momento, ad una fermata, vidi tanta gente che scendeva dal treno; mi chiedevo: ma dove stanno andando? Perchè questa domanda? Bene, perchè non riconoscevo più la mia città: il palazzo della Gazzetta non c'era più!! Tutto fu fatto in una mattinata! Ed in seguito abbattettero in parte anche la monumentale fontana per motivi di antifascismo (allora potevano abbattere tutta Bari!); ma la fontana di fascista non aveva quasi nulla, perchè le torri rappresentavano ciascuna una provincia pugliese o lucana. Grazie per l'attenzione. E si potrebbe scrivere un volume sulle pazzie fatte dai baresi e/o dai loro amministratori dagli anni 60 ad oggi (io ho 81 anni).Grazie ancora e complimenti.
  • Ivan - Si ma manca una parte importantissima della storia, cioè le coperture politico-mediatiche. C'è chi le conosce molto bene: giornalisti della Gazzetta di allora.
  • Rosa - In Italia esisteva allora le legge 1089 del 1939, che consentiva di dichiarare d'interesse culturale dei beni con più di 50 anni, anche appartenenti a privati. Quella legge è confluita, migliorata, nell'attuale d.lgs. 42 del 2004, detto Codice dei beni culturali e del paesaggio. Mi chiedo perché la Soprintendenza ai beni culturali di allora non sia intervenuta, dichiarandone l'interesse culturale particolarmente rilevante. Il Palazzo sarebbe stato tutelato e certo non si sarebbe potuto abbattere. Comunque ormai è andata così, secondo me. Inutile arrabbiarsi ma che sia monito per il futuro.
  • Rocco Chiapperini - In una cartolina (probabilmente fine anni trenta-anni quaranta) compare sulla sommità della parte destra del palazzo, una scritta: "FERROVIE DEL". Il resto della scritta è coperto dal getto d'acqua della fontana, anch'essa non più esistente in quella struttura tipica del fascismo.


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