di Gabriella Quercia

Collezione Montrone, 167 locandine degli antichi teatri baresi: la storia
BARI - Due anni fa, nell’aprile del 2013, il foyer del Teatro Petruzzelli ospitò un’interessante mostra dal titolo “Locandine teatrali di un tempo che fu”. Furono esposte in quei giorni 167 storiche locandine teatrali accumulate dal 1924 al 1934 dal collezionista barese Michele Montrone: “strilli di sala” che l’uomo, ingaggiato come claquer dai gestori degli antichi teatri, raccoglieva durante la sua attività di applauditore.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Questa inedita collezione (vedi foto galleria) testimonia una Bari all’epoca molto attiva dal punto di vista teatrale. Si parlava allora del “miglio dei teatri di Bari”, perché nel giro di un chilometro e mezzo tra il quartiere Murattiano, Madonnella e Libertà si trovavano ben dieci strutture, tutte attivissime (Petruzzelli, Piccinni, Giardino Modernissimo, Kursaal Santalucia, Fenice, Margherita, Garibaldi, Oriente, Sociale, Umberto). 

Abbiamo deciso quindi di saperne di più, intervistando il figlio di Michele, il 68enne Luciano Montrone, appassionato custode del materiale paterno.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Come nasce la collezione Montrone?

Mio padre Michele, ormai defunto, nacque nel 1908 e sin da giovanissimo, negli anni 20, dimostrò un amore e una passione per il teatro. All’epoca non poteva permettersi il costo di un biglietto per assistere agli spettacoli, così girava per i teatri baresi chiedendo perlomeno di potersi portare a casa le locandine. A un certo punto però alcuni gestori teatrali dell’epoca, come Pittaluga, Vignali o Bianchi, vedendosi sempre davanti questo ragazzo gli proposero di entrare nella claque di Bari, nel gruppo dei “tiratori di applausi”.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

In che cosa consisteva questo lavoro?

Bisognava vestirsi in abito da sera per non farsi riconoscere e andarsi a sedere in posti strategici per far partire gli applausi al momento giusto. Si trattava di persone che, oltre alla mera passione per il teatro, erano anche esperti di recitazione, di musica e di tutto ciò che fa parte di uno spettacolo. Questo perché dovevano essere bravi a carpire il momento giusto in cui applaudire e spingere il pubblico a fare altrettanto. Mio padre mi raccontava che talvolta i claquer ingaggiati da un teatro si “infiltravano” tra le fila di uno spettacolo di un teatro concorrente, esprimendo pareri negativi, fischiandolo e condizionando il parere del pubblico. Mio padre amava questo lavoro, anche se non era retribuito. La sua paga erano le locandine che custodiva meticolosamente.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Dal punto di vista grafico le locandine erano molto semplici e lineari…

Queste locandine venivano poste solo all’interno del teatro e non in città, motivo per cui erano piccole e spesso in bianco e nero. Si chiamavano “strilli di sala” perché non hanno immagini, erano scritte in script, cioè un carattere lineare e semplice che permetteva di inserire sul foglio più informazioni possibili. Alcune tipografie apponevano una cornice, dei semplici motivi lineari che credo si rifacessero anche un po’ allo stile del teatro. La scritta del teatro era in alto e il titolo dello spettacolo evidenziato in neretto. Non mancavano tutti i nomi dei personaggi e i relativi interpreti, che informavano su quanto fossero nutrite le compagnie dell’epoca. In basso non era raro trovare scritte autoreferenziali come “Il più bel ritrovo per famiglie” (sulla locandina del teatro Modernissimo), oppure l’Umberto precisava l’esistenza di una buvette, cioè di un bar. Anche informazioni come “ventilatori comodissimi” erano comuni.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)


Alcune presentano anche simboli fascisti.

Quando la dittatura si fece più pressante, alcune locandine teatrali affiancarono al classico scudo biancorosso il simbolo del Fascio. Si veda il manifesto del Piccinni: ha due simboli e accanto alla data della rappresentazione ci sono dei numeri romani. Siamo nel 1931 e il nove a numeri romani comunica che quello è il nono anno di regime mussoliniano. Contemporaneamente le locandine teatrali riportavano, in uno stesso foglio, anche le notizie dei film dell’Istituto Luce, proiettati di solito il lunedì.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Che tipo di spettacoli venivano offerti al pubblico dell’epoca?

Prosa, varietà (spettacoli teatrali di carattere leggero) e avanspettacoli, molto simili ai varietà ma con un aspetto comico più accentuato. Accanto a questi c’era la più musicata e elaborata operetta, affiancata dalla lirica. C’è da dire che l’avvento del Fascismo portò alla promozione di spettacoli leggeri, atti a non far pensare il pubblico. Tuttavia l’offerta culturale continuava a essere ampia: quasi ogni giorno c’era la possibilità di assistere a uno spettacolo. Addirittura il Fenice proponeva il “venerdì delle signore”, iniziativa subito emulata dal Sociale, che dedicava la programmazione alle sole donne.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Si lavorava a tamburo battente quindi…

Esatto, gli attori erano al completo servizio del teatro. Il primo spettacolo andava in scena attorno alle 17, durava circa 90 minuti ed era in un atto. Terminava quindi intorno alle 19. A quel punto gli attori avevano un’ora di pausa per truccarsi, vestirsi, ripetere le battute dello spettacolo vero e proprio che iniziava quasi sempre intorno alle 21 e durava due ore, quindi era in due atti. Gli attori che arrivavano a Bari non vivevano molto la città. Mio padre mi raccontava che solitamente cenavano la sera della prima, mentre il resto dei giorni si arrangiavano con un panino e un bicchiere di vino tra un messa in scena e l’altra. La mattina, che era libera, la sfruttavano per riposare.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Che cosa l’ha spinta a mostrare ai baresi la collezione di suo padre?

E’ avvenuto tutto per caso. Un giorno però mi trovai nella Mediateca regionale pugliese a un convegno che riguardava il teatro e le sue atmosfere: presi la parola dicendo di avere a casa questo materiale e che ero disponibile a mostrarlo a chiunque avesse voluto. Tra il pubblico c’era Maria Pia Pontrelli della Soprintendenza archivistica per la Puglia. Mi disse che voleva assolutamente vedere le locandine per censirle e catalogarle. Seguirono quattro o cinque settimane in cui casa di mia sorella fu frequentata dal personale dell’ente. Armati di fotocamere, centimetri e cataloghi, censirono una per una le nostre locandine, verificando naturalmente il loro stato di conservazione. Grazie a loro il Mibac (Ministero beni artistici e culturali) ha dichiarato la collezione “bene d’interesse culturale”, curandone anche la digitalizzazione e la mostra al Petruzzelli.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Le locandine hanno anche un valore economico?

Non direi: un esperto mi ha riferito che ogni locandina può valere al massimo una trentina di euro. Ma il nostro è comunque un piccolo tesoro, dal punto di vista affettivo ma anche storico, visto che rappresenta un tassello dei tempi gloriosi e ormai andati della Bari che fu.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

(Vedi galleria fotografica)


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