di Irene Coropulis - foto Valentina Rosati

Bari, la nascosta Masseria Manzari: ricordo dell'antica contrada Parco d'Incuria
BARI – Un’ottocentesca dimora padronale che rappresenta una delle ultime testimonianze di un’antica contrada di Bari: Parco d’Incuria. È il biglietto da visita di Masseria Manzari, storico edificio che, attorniato da villette sorte negli anni 70, si nasconde in un’area compresa tra la statale 16 e il quartiere Sant’Anna. Uno stabile che mantiene ancora la sua anima originaria, fatta di eleganti loggiati, vecchie suppellettili e una rigogliosa vegetazione che la circonda.

Noi siamo andati a scoprire la tenuta rurale, tra le poche rimaste nel territorio cittadino, che tra l’altro, a differenza di complessi abbandonati o poco curati quali le masserie Dottula, Vassallo, De Tullio o Costantino, risulta tutt’oggi vissuta e ben conservata. (Vedi foto galleria)

Per raggiungerla partiamo dalla complanare della statale 16, ovvero il prolungamento della japigina Via Gentile. Ci dirigiamo in direzione nord, superando sia via Prayer (l’ingresso del quartiere Sant’Anna) che la piccola e rossa chiesetta che dà il nome al rione, altro ricordo della vecchia contrada.  

Percorriamo così mezzo chilometro sino ad arrivare al civico 100 della strada, dove si erge un anonimo cancello verde che permette di accedere a lungo viale alberato ricoperto dagli aghi di secolari pini mediterranei. Dopo una passeggiata di cento metri ci ritroviamo in un piazzale a emiciclo fatto di chianche ingrigite: quello su cui sorge la dimora.

L’edificio si presenta con una facciata color crema divisa in due piani (il primo un tempo riservato agli agricoltori, il secondo ai padroni di casa). «L’impianto – ci illustra l’architetto Simone De Bartolo –  è di stile neorinascimentale e simmetrico, arricchito da rampe di scale laterali intervallate da fioriere in pietra, un candido loggiato e infissi in legno centellinati».

La vegetazione cresce anche a ridosso della costruzione e da un lato si prolunga su un pergolato che fa ombra agli scalini. Mentre sempre sul prospetto è affissa una targa che ricorda la data di erezione della Manzari: il 1890.

A spiegarci la storia della dimora sono i suoi proprietari: il 42enne Francesco e sua zia 71enne Maria, che qui trascorrono le vacanze, riunendo in particolari occasioni tutta la famiglia.

«Tutto ebbe inizio da un’idea del mio antenato sacerdote Giuseppe Manzari, braccio destro del vescovo – ci spiega Francesco –: possedeva venti ettari proprio a Parco d’Incuria e decise di realizzare una casa per la villeggiatura».

Maria ci mostra il progetto originale. «Lo stile architettonico doveva essere quello neoclassico – afferma –,  ma poi si optò per una struttura più simile a quella tipica delle masserie. D’altronde fino agli anni 60 qua c’era ancora la stalla con capre, pecore e galline, oltre ai contadini che si prendevano cura delle coltivazioni, producendo olio, vino, legumi e persino cotone».


Dei numerosi campi sono rimasti circa due ettari di terreno, la gran parte dei quali si cela sul retro, dove scopriamo un trionfo bucolico di fichi, melograni, gelsi, palme e gelsomini azzurri che si alternano a costruzioni in pietra realizzate tra gli anni 70 e 90. Queste ultime furono erette dal padre di Francesco, Giovanni, che avviò nel contempo un’importante ristrutturazione del complesso, ricavando ampie stanze al piano terra, cambiando la pavimentazione e aggiungendo l’impianto elettrico.

Sotto una tettoia spiovente sbuca poi un vecchio forno a legna attorno al quale un tempo si radunavano i vicini per la preparazione di pizze, focacce e dolci. «Qui attorno c’erano ville signorili, casupole di contadini e naturalmente la chiesetta di Sant’Anna con l’adiacente masseria», evidenzia Francesco.

«Tra noi ci conoscevamo tutti – rammenta Maria –. Da bambina frequentavo i Trojano, figli dei proprietari di Sant’Anna e i ragazzi iscritti alla scuola rurale per agricoltori fondata nella vicina Villa Nitti Valentini, oggi centro religioso Oasi De Lilla».

La donna ci mostra anche delle foto in bianco e nero che mostrano la dimora ai primi del 900. È facile notare come a distanza di tanti anni sia rimasta uguale a se stessa, con l’eccezione delle colonne d’ingresso non più esistenti che si stagliavano dove ora sorge la statale.

Ma è arrivato il momento di entrare. Ad accoglierci è un ambiente fresco coronato da alte volte. Su una parete è incorniciata una pergamena datata 4 maggio 1878: si tratta di un decreto di Giuseppe Manzari che proibisce la caccia nella contrada.

Il documento non è l’unico oggetto d’epoca: attorno a noi notiamo ad esempio una macchina da cucire col caratteristico coperchio e un ferro da stiro a carbone. Alcuni utensili ricordano la vita di Paolina, sorella del papà di Maria. La donna si trasferì qui negli anni 40, periodo in cui i terreni della tenuta furono anche requisiti dalle forze alleate e adibiti ad accampamento, restandovi sino alla sua morte avvenuta nel 1983.

Un ulteriore cimelio è costituito da un biglietto ingiallito dalla grafia elegante: risale al 1886 e invita Giuseppe, in virtù della sua carica ecclesiastica, al matrimonio del futuro Vittorio Emanuele III con Elena del Montenegro.

Ci spostiamo ora negli altri ambienti. L’ex rimessa delle carrozze e la vecchia area destinata alla stalla oggi sono spazi ampi ornati sobriamente da cassapanche e comò, sedie e tavolini, piccoli quadri, candelabri antichi e una radiolina d’epoca.

Tramite una scala giungiamo ora al più “nobile” piano superiore e alla camera dello zio prelato, il cui ritratto vigila su di noi. Un armadietto in legno ci riserva una chicca: le sue ante si aprono infatti su un altare domestico, tripudio di immagini sacre, statuine e manne, davanti al quale si sono svolte funzioni fino agli anni 80.

Nella stanza da letto, che conserva l’arredamento originale, ci imbattiamo in un’altra sorpresa: un particolare crocifisso in cera dell’800 con tanto di “porticina” che svela il costato di Cristo.

Saliamo infine sul terrazzo tramite una stretta scalinata. Giunti in cima ci immergergiamo nello spirito contadino di un tempo, ammirando le grandi distese di terra che sembrano fondersi con l’azzurro del mare.

In lontananza le moderne palazzine del quartiere Sant’Anna ci ricordano però come il tempo sia passato anche qui a Parco d’Incuria. «Ma questa casa verrà preservata dalla cementificazione – avverte risoluto Francesco -: rappresenta la storia della mia famiglia e ci parla nostalgicamente di quella Bari rurale che ormai non esiste più».

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  • Vito Petino - I RAGAZZI DI JAPIGIA E LA MASSERIA MANZARI Abitavamo da poco nella quarta traversa di Japigia. Durante le vacanze scolastiche tre erano i passatempi preferiti, la partita di pallone, i bagni nella spiaggia libera a sud del lido Marzulli, la nostra spiaggia della vecchia Panepmmdor per intenderci e, quando il mare era agitato, le lunghe passeggiate sino al Camping di San Giorgio. Passavamo spesso perciò davanti al cancello della masseria Manzari, senza saperne il nome. Ricordo con nostalgia la seconda metà di giugno. La mattina all'alba ci riunivamo ragazzini dai 10 ai 14 anni nei cortili delle nostre case per marciare lungo il viale col solito panino fresco tagliato per colazione. In mezzo vi spiaccicavamo i fioroni appena colti dai rami sporgenti sulla strada, oltre i muretti a secco. Tutto il viale Japigia era limitato da campi agresti, e finiva sull'argine nord del Canalone. Di solito le camminate brevi terminavano nel suo letto. Trasformati in spericolati esploratori, davamo la caccia armati di pietre a ogni cosa che si muoveva, soprattutto scorzoni che si nascondevano nei bunker di cemento, residui della seconda guerra. Dall'argine sud si allungava via Gentile, o via Nuova di Mola, sino a incrociare la provinciale per Triggiano. Il ponte sul Canalone fungeva da nastro che legava insieme le due strade. Via Gentile era punteggiata da filari dirimpettai di alberi d'alto fusto, gelsi che s'alternavano a platani, dandoci ristoro e frescura con la loro ombra. Prendevamo I primi d'assalto. Scalato il tronco ci si piazzava in equilibrio instabile sui rami e facevamo scorpacciate delle succose e dolci bacche nere. Dita delle mani e musi rossi ci rendevano irriconoscibili quando si scendeva dall'albero. Alla prima fontanina dell'Acquedotto lungo la strada ci si lavava alla meglio. Quelle che non andavano via erano le macchie sui vestiti. Per questo si stava attenti a non strofinarci le dita addosso mentre mangiavamo i gelsi. Ma anche per non prenderle dai genitori. Giunti di fronte alla masseria Iacobellis (tuttora esistente a sinistra duecento metri prima d'imboccare la complanare), di alberi sui lati della strada non ce n'erano più. Da quel punto la campagna si estendeva fin dove l'occhio arrivava. E si diventava tutti cacciatori. Sfilata la fionda appesa al collo davamo la caccia a lucertole e uccelli. Polso fermo e dita serrate sul manico del forcello, ricavato da un ramo d'albero a vu e adattato al palmo della mano con un preciso lavoro di coltello, caricavamo nella pezzetta di cuoio, che collegava le due molle attaccate quasi in cima ai due rametti del forcello, una pietra ben calibrata e facevamo strage di poveri animaletti. Eravamo veri barbari inconsapevolmente crudeli. Per stabilire chi vincesse il titolo di miglior cacciatore, avevamo decretato un punteggio per ogni bersaglio centrato. Un punto lucertola grande, tre la piccola, cinque il taglio netto della coda, che ci divertiva veder danzare, di ogni lucertola, che comunque aveva salva la vita nascondendosi nelle fessure dei muretti, dieci gli uccellini. I piccoli rettili li abbandonavamo dove erano stati colpiti. Gli uccelli li prendevano quelli di noi che avevano il coraggio di portarli a casa, dove le madri provvedevano a farli in padella dopo spennati. Giunti all'incrocio della strada per Triggiano, giravamo a sinistra, e se il passaggio a livello fosse chiuso, ci si sedeva sui muretti laterali a riposarci prima del ritorno, che prendevamo sul lato mare, lungo la via Vecchia di Mola. All'epoca strada ferrata e strada proveniente da Triggiano erano poste sullo stesso livello, come sullo stesso identico livello erano poste la via Gentile e la via Vecchia di Mola. È stata la realizzazione della circonvallazione che, col sottopasso, ha portato più in basso la strada da Triggiano, per poi farla risalire verso il Camping e l'eliminazione del passaggio a livelli, sostituito dal ponte ferroviario in pietra sullo stesso livello e parallelo alla circonvallazione. Passato il treno, e percorso il breve tratto fino al Camping, si girava a sinistra, seguendo la costa sino al lido Marzulli. A questo punto si scavalcava la staccionata ferroviaria di cemento, si attraversavano i binari e si tornava a casa, in seno alla nostra quarta traversa di Japigia...
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