Simboli misteriosi, stalattiti e antichi affreschi: a Putignano c'è la Grotta di San Michele
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mercoledì 30 settembre 2020
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di Giancarlo Liuzzi - foto Valentina Rosati
La cavità, pensata originariamente dai Romani per ospitare un tempio pagano dedicato al dio Apollo (la cui pianta sacra, l’alloro, ha dato il nome all’intera altura), fu trasformata in chiesa cristiana dedicata a San Michele agli inizi del VII secolo.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Attorno ad essa venne anche costruito un convento, che vide il susseguirsi di vari ordini monastici fino alla fine dell’800, quando divenne proprietà della nobile famiglia Romanazzi Carducci. Nel 1930 fu requisito da Mussolini per creare un sanatorio per i malati di tubercolosi: struttura che rimase attiva sino agli anni 70 del secolo scorso, per essere poi destinata a complesso ospedaliero. Ora l’edificio ospita soltanto uffici amministrativi della Asl locale e qualche reparto medico.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
La grotta è però restata lì, nel tempo restaurata e rimaneggiata, ma conservando sempre il suo antico splendore: quello che richiama ancora oggi numerosi fedeli, soprattutto di domenica, giorno in cui si tiene la messa.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Per raggiungerla dal “paese del Carnevale” imbocchiamo la provinciale 237 in direzione Noci: dopo due chilometri svoltiamo a sinistra e, seguendo le indicazioni, ci ritroviamo così su una salita alberata che conduce alla nostra destinazione. (Vedi foto galleria)
Percorriamo il lungo viale fino allo spiazzale centrale, lì dove dominano le vetrate ad arco dell’enorme ex monastero. È facile distinguerne la parte più antica, contraddistinta da finestre bifore: si trova proprio accanto alle mura grigie dell’ingresso della grotta, che dall’esterno appare come una classica chiesetta.
«Sono in effetti i resti del tempio di Sant’Andrea apostolo, fatto edificare Gregorio Magno agli inizi del VII secolo - ci rivela Luigi Cino, presidente della Proloco di Putignano -. Fu il Papa infatti, la cui famiglia era proprietaria di questa zona, a volere che il luogo fosse convertito da pagano a cristiano».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Non ci resta che entrare. Dopo aver percorso in discesa qualche gradino, ci ritroviamo subito all’interno della cavità, la cui pietra millenaria e le aguzze stalattiti sono illuminate dalla luce calda di alcune lampade laterali. Un ambiente allo stesso tempo intimo e solenne, la cui atmosfera, seppur con le dovute differenze, ci ricorda il Santuario della Madonna della Grotta di Modugno.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
«Ci troviamo in una delle più grandi grotte carsiche del meridione – sottolinea Luigi -: misura 30 metri di lunghezza, 17 di larghezza e raggiunge i sei metri di altezza. La sua formazione risale al cretaceo superiore, circa 100 milioni di anni fa».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Il periodo di maggior fama del tempio fu tra l’anno 1000 e il 1200, durante le crociate. Il santuario si trova infatti a ridosso della “Via dell’angelo”, una linea immaginaria che, secondo la leggenda, rappresenta il colpo di spada inflitto da San Michele a Lucifero per rispedirlo all’Inferno. Questo sentiero unisce sette templi, dall’Irlanda ad Israele, e veniva percorso dai crociati i quali, giunti qui, si riposavano per poi imbarcarsi verso la Terra Santa.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
È arrivato ora il momento di visitare l’antro, al centro del quale si trovano una doppia serie di panche in legno che conducono all’altare centrale, sovrastato da una struttura ad arco con ai lati due edicole votive. Una di queste accoglie la statua di San Michele, realizzata all’inizio del 500 da Stefano da Putignano, artista che si occupò in quegli anni del restauro dell’intero complesso.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
La scultura, ricavata da un unico blocco di pietra policroma locale, raffigura il santo in abiti da guerriero con scudo e spada sguainata mentre tiene alla catena un drago, simbolo del diavolo.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
«È una delle più grandi e pregevoli opere dedicate a Michele – ci fa notare la nostra guida -. Il volto ha una strana particolarità: in base all’angolatura da cui lo si osserva può apparire sia con lineamenti maschili che femminili. Pare sia stata una scelta dell’artista dopo che rinvenne i resti dell’antica statua di Apollo presente nella stessa nicchia in passato». Il dio greco veniva infatti rappresentato con i tratti di entrambi i sessi, a evocare la bellezza universale.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Ricche di elementi misteriosi sono anche le due colonne laterali, formate ognuna da nove piccoli bassorilievi raffiguranti svariate scene allegoriche, personaggi e animali. «Tra le scene più curiose c’è quella di Gesù con le mani legate dietro la schiena mentre viene calciato nelle parti basse da un soldato. E poi non passano inosservati i suonatori di flauto e tamburello, gli asini, i delfini, i grifoni, le sirene e persino due centauri», ci spiega dettagliatamente Cino.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Ci avviciamo adesso all’edicola a destra dell’altare, dipinta nel 1538 dal pittore locale Francesco Palvisino: mostra in alto il Cristo Pantocratore, al centro la vergine del Carmelo e ai lati sant’Alberto da Trapani e sant’Angelo di Gerusalemme». I due santi erano molto amati dalla popolazione perché venivano invocati durante la raccolta delle olive.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Per finire ammiriamo il grande affresco che domina il centro della grotta e il retro dell’altare. Rappresenta la crocifissione di Gesù, anche se molte parti sono mancanti. «È più antico rispetto agli altri decori – sottolinea il presidente della Proloco -: databile tra il 1334 e il 1338, è stato eseguito probabilmente dagli allievi della scuola di Giotto». Il disegno in effetti richiama, sia per le tonalità dei colori che per il tema, un lavoro del grande pittore presente nella cappella degli Scrovegni a Padova.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
E anche quest’opera rivela aspetti particolari. Sulla sinistra è infatti raffigurata non solo la Madonna che sviene vedendo il proprio figlio morente, ma anche un’altra donna dai capelli rossi ritratta sempre con l’aureola, senza però il velo. Si tratta della “peccatrice” Maria Maddalena, una figura raramente dipinta nelle scene sacre: l’ennesima “chicca” di questo luogo sotterraneo, inconsueto e sorprendente.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
(Vedi galleria fotografica)
© RIPRODUZIONE RISERVATA Barinedita
I commenti
- Maria Rosaria - Grazie per le preziose informazioni di BARINEDITA
- Alberto Ricciardi - La grotta toglie davvero il fiato per la sua bellezza, ed il gentilissimo Luigi Cino che si occupa di questa meraviglia, ci riporta ai fasti delle epoche passate con le sue appassionate e competenti narrazioni storiche! Complimenti per il coinvolgente articolo Barinedita!
- Vito Petino - In tema con San Michele, avrei voluto raccontarvi la storia dei tre Micheli in unica soluzione. Storia un po' lunga. Così ho deciso di suddividerla in tre. Una per ogni Michele. I TRE MICHELI (tratto dal libro PRENDERE LA VITA A CALCI) prima parte... Caterina, Angelo e Rosetta erano fratelli, figli di Michele Schena del ramo barese. Caterina la più grande sposò Giovanni e il loro secondogenito lo chiamarono Michele. Angelo sposò Marietta e anche loro dettero nome Michele al secondo figlio, primo maschio. Rosetta sposò Franco e dettero al bambino il nome Michele, secondo figlio pure lui. Per distinguere i tre cugini utilizzarono nomignoli diversi. Ma nel dubbio di scambiare una persona con l’altra, tipico del popolino, per sicurezza aggiunsero ai vezzeggiativi altro nome per distinguere un Michele dagli altri due. Così i tre nei discorsi divennero per tutti i cugini Michelino di zia Caterina, Lillino di zia Marietta e Lilli di zia Rosetta. I padri rimanevano i capi famiglia, ma i figli erano delle mamme. I cognomi dei tre erano diversi naturalmente, come diverse furono le loro vite. Michelino di zia Caterina Michelino di zia Caterina non ne volle proprio sapere della scuola. Cosi Giovanni se lo mise sotto per fargli capire le cose necessarie a lavorare i campi, o almeno tentò. Ma il mestiere di contadino nella piccola masseria del padre a San Francesco alla Rena, fra il lido e lo stadio della Vittoria, non gli ingozzava proprio. Il lavoro era duro e dall'alba al tramonto. Mugugnando negli anni della fanciullezza, e imprecando quando s’era fatto uomo, tirò a nascondersi ogni volta che la fatica si faceva più dura, lasciando al padre e Nicolino, il fratello più piccolo ma più prestante, i lavori di aratura, carico di ortaggi e frutti sul carro per portare le derrate al vicino mercato generale. Tracagnotto, piedi piatti e andatura pendolante, appena 25enne parlò col padre di essere negato per la campagna, e avrebbe preferito lavorare in fabbrica. Zio Giovanni, pur di liberarsi di quel figlio fannullone, fu contento che avesse deciso di andarsene a Milano. Nel capoluogo lombardo vivevano da tempo altri tre Schena, fratelli dei tre di Bari. Michelino di zia Caterina fu accolto da uno dei tre zii. Raccontò nelle lettere che inviava di aver trovato un ottimo lavoro. Infatti alla prima vacanza, tornò a Bari sbarbato, abiti eleganti e pieno di soldi. Ne consegnò un bel po' a zia Caterina prima di ripartire. E la storia si ripeteva il paio di volte all’anno che tornava a casa. Arrivava carico di soldi, e si fermava per un mese. Se gli chiedevano come mai due mesi di ferie, rispondeva che faceva un lavoro di responsabilità e stressante. A Milano era stimato da parenti e amici, ma di trovarsi una casa non se ne parlava. Stava comodo in casa di zio Ciccillo e della moglie Carmela, e loro contenti per l'aiuto che davano al nipote, ricredendosi sulla nomea di sfaticato che si era portata dietro da Bari. Una sera zia Anna, moglie di zio Antonio il più grande dei tre fratelli, organizzò una festa di ricevimento per suo cognato Nicolino, il piccolo dei tre Schena “milanesi”, che portò a conoscere Nella, la sua fidanzata barese, ai due fratelli. Naturalmente c’era Michelino di zia Caterina, il nipote prodigo in affari. Al culmine della festa, zia Anna lo presentò alla figlia di una sua amica, scopo eventuale matrimonio. Nel tendere la mano la madre della ragazza notò sul polso destro di Michelino di zia Caterina una voglia a stella. Quel particolare gli ricordava qualcosa ma di preciso non sapeva che. Tre giorni dopo la signora tornò da zia Anna chiedendole di accompagnarla in piazza Duomo. Addossato con le spalle alla facciata laterale sinistra del Duomo, proprio di fronte al porticato per la Galleria, con le gambe distese a terra e un cappello al fianco, c'era un barbone lacero. A ogni passante stendeva la destra col cappello fra le dita. La signora disse a zia Anna "Chel lì è tuo nipote Michelino." "Stai scherzando?", rispose indignata zia Anna, "Ma come fa ad essere Michelino con quel barbone lungo di mesi. Michelino è giovane, quello è un vecchio sofferente." “Vieni con me.” Ma zia Anna si tenne dietro di lei, timorosa della verità. Dopo che due passanti avevano deposto il loro obolo nel cappello, la signora tese la mano per offrire il suo tenendosi a distanza, in modo da costringere il barbone ad allungare la sua col cappello, sino a scoprire una voglia a stella su un polso giovanile. Zia Anna, rimanendo sempre coperta dall’amica, non ebbe più dubbi. La sconcertante verità era sotto i suoi occhi. Attraversata la strada, si recarono in Galleria per un aperitivo, in attesa del momento in cui il mendicante avrebbe smesso di “lavorare”. L’amica era bene informata di tutti i suoi movimenti. Alle dodici il barbone camuffato si alzò aiutandosi col bastone. Claudicando e barcollando con una borsa di pelle nera in mano, si avviò verso il Diurno di piazza Duomo, senza accorgersi di essere seguito. D’altro canto sarebbe stato difficile in mezzo a tanta gente in giro a quell’ora. Comunque per precauzione Zia Anna e l’amica si tennero a distanza. Sceso nel Diurno il mendicante, le due donne si fermarono all’inizio della scalinata. Un quarto d’ora e rividero il solito Michelino di zia Caterina che riaffiorava in superficie con una costosa sacca capiente. Risalendo alla luce, Michelino di zia Caterina non riusciva a distinguere le sagome in cima alle scale. A sentirsi chiamare, riconobbe la voce di zia Anna, e senza scomporsi parlò. “Ciao, zia. Buongiorno signora. Che ci fai da queste parti, e a quest’ora”, sapendo che zia Anna a quell’ora era attorno ai fornelli di casa. “Tu che ci fai da queste parti. Non dovresti essere al lavoro?” “Ho chiesto un permesso per farmi una doccia. Sai che a casa degli zii siamo in tanti e preferisco non disturbare più di tanto.” “E i vestiti da barbone che avevi sino a poco fa dove sono.” Sempre con lo stesso atteggiamento imperturbabile rispose. “Barbone? E che c’entra mo’ ‘sto barbone.” “Non fare il cretino. Ti abbiamo visto quando sei sceso.” “Ma vi sbagliate. Non ero io. Il barbone che avete visto forse è ancora giù.” “Sì? Allora apri quella sacca e vediamo cosa c’è dentro.” “ Ci sono carte di lavoro.” “ Ma guarda che faccia tosta! Negare quello che abbiamo visto in due. È più d’un’ora che ti seguiamo. E tu metti documenti di lavoro in una sacca? Facciamo così, o la apri ora, oppure chiamo quel carabiniere.” Messo spalle al muro, la farsa si trasformò in dramma. Michelino di zia Caterina cominciò a tremare, a piagnucolare. “Zi’ Jann, p piacer non zi dcenn nudd a papà e mamm. U sa che papà m l’ammen fort l mazzat. ‘Na vold m l’ammnò ch la mazz ca s spzzò, e po’ condinuò ch la cind. So ditt nu sacch d fssarì ogni vold che scev a Bbar. M iacchijch ‘na casa me e llassch cas d zi’ Ciccill e z’ Carmel. No m fazz cchiù avvdè da nsciun.” “Non hai capito niente. Devi sparire da Milano. Vai dove vuoi, ma via da Milano entro stasera. O ti faccio cacciare dai carabinieri col foglio di via e da indesiderabile.” “No, no, la zi’. Va bbun. Staser partch.” “Non fare scherzi. Avviso tuo padre, gli dico che non stai bene, e di venire a prenderti alla stazione di Bari.” “Sì, sì, ma no nzì dcenn nudd ca crcav la lmosn.” E qui finì la brillante carriera milanese di Michelino di zia Caterina. Tornò a lavorare col padre, ma dopo che nella stazione di Bari ne prese tante, da togliergli qualche brano di pelle. Comunque, zio Giovanni gli tolse anche diversi libretti di risparmio che gli mitigò un po’ la collera. Giovanni prese quei soldi come risarcimento per quel che ne aveva fatto del suo nome il figlio, ma non disse niente a nessuno. I pochi soldi che guadagnava, lavorando duro quella terra che di anno in anno produceva sempre meno, bastavano appena ai bisogni più immediati della numerosa famiglia. Michelino di zia Caterina non aveva mai avuto iniziativa ed era molto legato alla madre. Se no avrebbe investito quei soldi, rifacendosi una vita altrove senza più sottomettersi alla vergogna di familiari e conoscenti, che comunque non lo toccava minimamente. La limitata intelligenza era andata oltre con la recita da barbone, dovuta più a imitazione che a vera iniziativa. Aveva visto farlo ad altri e pensava che si potesse campare per sempre a quel modo. La sera stessa della rivelazione zia Anna, preoccupata di ritrovarselo fra i piedi, aveva detto tutto al cognato per telefono, senza minimamente accennare allo stato di salute del figlio; anzi aggiunse che stava benissimo, doveva soltanto tenerlo più sottocontrollo. Dopo quella lisciata a parole e mani, zio Giovanni se lo mise insieme e da quel giorno non lo lasciò più allontanare. Il lavoro del piccolo fondo non rendeva più, Così zio Giovanni decise di cambiare mestiere. Con Michelino sempre alle costole, girava per le macellerie della città raccogliendo le frattaglie della lavorazione delle carni. Tornati alla masseria, ormai adibita solo ad abitazione, mettevano su due tufi un grande bidone annerito, come quelli per far bollire le bottiglie di salsa, accendevano fra i due tufi e sotto il bidone tronchi di legna e, introducendo nel bidone le frattaglie miste a una polvere bianca, facevano sciogliere il grasso animale al calore del fuoco, sempre più ardente sotto il bidone, sino a quando da un foro alla base non cominciava a colare liquido che raccoglievano in lunghe forme metalliche quadrate. Quando il liquido si raffreddava diventava sapone a barre per il bucato. Giovanni e Michelino andavano poi in giro per drogherie cittadine a vendere quelle barre di sapone che le massaie tagliavano a pezzi, facendolo durare a lungo. Michelino di zia Caterina aveva 40 anni quando il padre morì. Avevano cambiato casa qualche tempo prima della morte di zio Giovanni, andando ad abitare in via Brigata Regina, proprio ad angolo con via Napoli. Non aveva mestiere e nemmeno voglia di lavorare Michelino di zia Caterina. Tirò avanti per cinque anni con la misera pensione della madre. Un giorno una signora andò a far visita a zia Caterina, e combinarono di far sposare Michelino con Gianna, figlia signorina della signora, avanti con gli anni. Gianna era più grande di Michelino. Conduceva un portierato in via Napoli, alla girata di casa di zia Caterina. Così Gianna e Michelino si sposarono. Condussero insieme quel portierato, con nel retro un piccolo appartamentino. Non ebbero figli. E lì finì i suoi giorni Michelino di zia Caterina. La sua Gianna li finì prima di lui… (continua)