di Gaia Agnelli

Cima, Pepe, Peroni, Patriottica e Spadafina: i 5 coraggiosi "centenari" della moda barese
BARI – Rappresentano il simbolo indiscusso del murattiano, un quartiere considerato il fulcro dello shopping cittadino, anche se negli ultimi anni sono stati costretti a fare i conti con la concorrenza di centri commerciali e multinazionali. Parliamo degli storici negozi di abbigliamento (e accessori) di Bari, locali tramandati di generazione in generazione all’interno della stessa famiglia e che da decenni continuano a servire i baresi di ogni età.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Alcuni di essi hanno in realtà chiuso i battenti, altri si stanno ridimensionando, ma c’è chi continua a resistere, incurante delle nuove tendenze e dell’invasione delle griffe “straniere”. Addirittura in città sono ancora attivi 5 coraggiosi esercizi che possono definirsi i “centenari” della moda, aperti tra il 1902 e il 1928. Siamo andati a trovarli (vedi foto galleria)

Il nostro viaggio parte dalla strada per eccellenza degli acquisti: via Sparano. Siamo nel isolato/salotto “Liberty”, dominato dallo splendido palazzo che fino al 2001 ospitava il più prestigioso tra i negozi baresi: Mincuzzi. Una boutique che è stata soppiantata dalla multinazionale Benetton.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Qui però resiste il più antico negozio di abbigliamento di Bari: “Peroni”, aperto dal lontano 1902, come è inciso sulle due insegne a specchio che racchiudono l’entrata. Accedendo ci ritroviamo in un piccolo e stretto corridoio circondato da scaffali in legno dove trovano posto camicie, giacche, cappelli e scarpe.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Ad accoglierci è il 74enne dipendente Giuseppe De Feo, che da quarant’anni a questa parte affianca il 67enne titolare Adolfo Peroni. «Fu suo nonno, Roberto Peroni, ad aprire questo punto nei primi anni del 900 – ci dice Giuseppe -. Lui era originario di Milano e comprese subito che Bari sarebbe potuta diventare una grande piazza del commercio. La prima sede venne inaugurata in corso Vittorio Emanuele, poi negli anni 30 ci si spostò qui, in un palazzo d’epoca di via Sparano. E se inizialmente si vendevano solo colletti di camicie, nel tempo la boutique si è affermata per la confezione d’abiti». 

Un esercizio commerciale che ha attraversato un secolo passando prima nelle mani del figlio Renato e diventando poi, dal nuovo millennio, proprietà del nipote Adolfo.  «Il segreto – ci confessa Giuseppe – sta nel coccolare e non tradire il cliente, garantendogli solo capi di alta qualità: i baresi sanno bene che qui non troveranno mai un paio di jeans strappati».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Ritorniamo sulla strada principale per proseguire verso corso Vittorio Emanuele. Giriamo quindi a sinistra per via Abate Gimma dove, al piano terra dell’edificio che ospita la storica chiesa di San Ferdinando, notiamo illuminarsi delle colorate vetrine. Sono quelle della più antica profumeria di Bari: “Pepe”.

A informarci del suo anno di fondazione è il tappetino situato all’ingresso, che riporta la data del 1925. Anche se all’interno il negozio non dimostra la sua età, sfoggiando un look moderno con manifesti pubblicitari e scaffali accesi da sgargianti neon.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

«L’azienda è stata fondata da Lorenzo Pepe in via Andrea da Bari, con il nome di “La Valle Fiorita”– ci spiega il 44enne amministratore unico Michelangelo Liuni -. Poi nel 1933 si spostò qui assumendo l’attuale denominazione. Io sono subentrato nel 2007 allo zio di mio zio: Giuseppe, figlio di Lorenzo, colui a cui questa profumeria deve tutto. Fu infatti lui a riuscire ad affermare il nome di Pepe in Italia, essendo presidente nazionale dei profumieri e il suo ingegno portò anche alla modernizzazione del negozio».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)


Chiediamo a Michelangelo come vive la concorrenza di un grosso marchio quale Sephora, situato proprio di fronte al suo locale. «Sicuramente sono competitor che rispettiamo – ci risponde -, ma abbiamo due target diversi. Loro lavorano sui giovani, mentre noi abbiamo clienti disposti a spendere cifre anche  molto alte».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Ritorniamo sui nostri passi e, percorrendo via Sparano in senso inverso, giriamo a sinistra su via Calefati. Dopo due isolati, ad angolo con via Melo, incontriamo “La Patriottica”, enorme boutique con due ingressi separati (uomo e donna), aperto dal 1922.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Entriamo nel locale dal soffitto a botte e l’arredamento in legno, per fare la conoscenza del proprietario, il 57enne Giuseppe Lippolis: stesso nome e cognome di suo nonno, fondatore dell’esercizio commerciale. «Fu lui ad aprire sia in Albania che a Bari una sartoria di bandiere e divise militari – racconta -. Poi nel Dopoguerra il negozio si modernizzò, diventando un punto vendita di confezioni e abiti civili e affermandosi sempre più nel crescente commercio barese».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Proseguiamo per via Calefati e giriamo dopo due isolati a destra, su via Principe Amedeo. Quasi ad angolo con via Sparano ci attende il negozio di accessori per calzature e articoli per la casa più antico della città: Spadafina 1904.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

L’esercizio si trova in via Principe Amedeo da sempre, anche se fino al 1962 era ubicato in un palazzo vicino, poi abbattuto. Oggi l’insegna luminosa sovrasta le vetrine che sfoggiano una vasta gamma di merce come pantofole, cinture e cosmetici.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Accediamo per parlare con il titolare, il 60enne Roberto Spadafina. «É stato mio nonno Michele a fondare l’azienda all’inizio del 900 – ci dice mostrandoci la sua foto in bianco e nero appesa a una parete  -. Per anni fummo essenzialmente una rivendita di articoli per calzolai, poi tutto passò nelle mani di mio padre Alfredo che ampliò l’offerta trasformandoci in una sorta di grande merceria».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Sulla concorrenza Roberto non ha dubbi. «Non la temiamo – afferma -, siamo unici a Bari e possiamo contare su una clientela di migliaia di persone che sanno che qui troveranno sempre la massima qualità».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Concludiamo il nostro viaggio su via Sparano. Ad angolo con piazza Umberto si staglia dal 1928 l’insegna della “Società anonima Cima”, dedita da quasi cento anni alla vendita di intimo e biancheria.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

«Il negozio nasce come filiale di un’azienda torinese – ci spiega il titolare 57enne Carlo Carli -. Mio nonno, il friulano Dositeo Carli, fu infatti “spedito” a Bari per aprire una sorta di franchising. Poi quando la casa madre chiuse, le varie succursali divennero autonome. Molte fallirono, ma non noi: siamo infatti rimasti sempre qui. I proprietari oggi siamo io e mia sorella Tea, ma si sta cominciando ad affacciare la quarta generazione.  

Mentre chiacchieriamo osserviamo le volte a crociera del locale e i numerosi cassetti inseriti nei mobili in legno. «Siamo antichi vero, ma ci siamo adeguati alle nuove esigenze di mercato – conclude Carlo -. Del resto questo è l’unico modo per sopravvivere ai colossi della moda, quelli che ci stanno pian piano accerchiando».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

(Vedi galleria fotografica)


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Gaia Agnelli
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  • vito petino - I NOSTRI NEGOZI DEL CENTRO Festeggiammo le vacanze di Natale su quel campo, disputando partite una dietro l’altra. È facile immaginare la disperazione delle madri, quando ci vedevano tornare con gambe, braccia e indumenti di gioco inzaccherati di fango per la pioggia caduta sul terreno. Ma il lavaggio di ragazzi e accessori era l’onere minimo che in famiglia sopportavano per la grande passione dei propri figli. I guai più grossi e costosi si avevano per incidenti legati a quella passione. Poche sere prima del Natale del ’54 Mamma aveva fatto una richiesta a mio padre. - Franco, domani non scordarti di prendere i buoni per le scarpe e i vestiti. Non so più che mettere ai bambini; la roba che hanno è diventata stretta. - E la tredicesima? - Non l’ho toccata. Il giorno sette c’è il cambialone dei mobili. - Che è ‘sto cambialone! - Ogni fine anno l’importo da pagare è doppio. Mia madre era così. Anche le brutte notizie preferiva darle a rate. - Ah … Va be’, ma dalla tredicesima avanzano altri soldi … - C’è la spesa per Natale e le altre feste. Bisogna andare avanti sino al 5 prossimo. - Per quello che rimane dallo stipendio, una volta tolte le trattenute; e tu vuoi anche i buoni. - Ma sai che l’importo dei buoni la Direzione della Suddest te lo trattiene poco alla volta. I bambini hanno bisogno di vestirsi. Portami i buoni, così dopodomani andiamo a prendere ciò che serve. A mia memoria, non ho mai sentito mio padre dire a mia madre “Prendi qualcosa per te”; né viceversa mia madre invitarlo a prendersi roba nuova per sé. Avevano pochi vestiti nell’armadio, che indossavano per le occasioni importanti; a me parevano sempre nuovi indosso a loro. I commercianti stipulavano convenzioni con grandi aziende pubbliche, trattando sempre con affabilità familiari e dipendenti delle stesse aziende. Si facevano pagare la merce con i buoni aziendali, per farsi rimborsare dalle rispettive amministrazioni tutto l’importo in un’unica soluzione. Ne traevano profitto dall’aumentato numero di clienti. Il vantaggio per i dipendenti era triplice. Andare in giro senza troppo contante, usufruire di sconti concordati e poter rateizzare l’intero importo con trattenute mensili. Il giorno dopo andammo in centro con mia madre per gli acquisti. Passammo davanti al Bottegone, ma senza fermarci. Lì i miei genitori compravano gli abiti delle grandi occasioni per loro. Il primo negozio sulla nostra strada in cui entrammo fu La Patriottica. Commesse gentili e commessi solerti ci servirono pazienti a puntino, nonostante i nostri gusti fossero alquanto avventati nella combinazione dei colori. Provvide mia madre con la sua esperienza e i consigli degli addetti a mitigare le nostre esuberanze giovanili nella scelta di tinte troppo vivaci. Uscimmo dalla Patriottica con grossi bustoni contenenti pullover, camicie, pantaloni corti e cappotti per me e Lilli, alcuni vestitini per Elvira. Ci infilammo due isolati dopo nel negozio di Santagostino per capi che andassero bene a Tonino. Il piccolo aveva un anno ma ne dimostrava due, robusto e alto com’era; infatti lo stesso commesso consigliò un completino per bambini di due anni. Mia madre prese anche calze per tutti. Per concludere le compere mancavano solo le scarpe. Tornammo su corso Cavour, entrando da Marelli e don Peppino Cippone, allora giovanissimo, ci accolse insieme al padre con amicizia confidenziale. Eravamo da tanti anni loro clienti. Mentre tiravano fuori modelli di scarpe per ragazzi, vidi in vetrina un mocassino che mi mozzò il fiato. La tomaia in pelle color cuoio, la suola in caucciù chiarissimo, con profondi cingoli per tutta la larghezza della scarpa e messi di traverso alla lunghezza, mi ipnotizzarono. Non avrei scelto altro. Don Peppino precisò che quello era un numero per adulti e sarebbe andato nel retrobottega per vedere se ci fosse la mia misura. Nel frattempo il padre cercava di convincermi a provare qualcuno dei modelli disposti a terra con le scatole impilate. Il mio pensiero non si smosse d’un neurone. - Decis u uagglion. Disse il vecchio Cippone. - Iè nu capacchion. Aggiunse mia madre, e completò. - Vedi Lilli com’è accomodante. Ha già scelto le sue, senza fare tante storie. Sei capace solo di farmi dannare. Don Peppino arrivò appena in tempo con tre scatole nelle mani a tirarmi fuori da quella situazione. Mia madre aveva il dono di farmi innervosire quando mi costringeva a scelte spiacevoli. Aperta la prima scatola, c’era lo stesso mocassino della vetrina col numero esatto, ma la tomaia nera. Nelle altre due invece le scarpe erano proprio come quelle della vetrina. Il primo paio mi andava pochino pochino largo. L’altro molto stretto. - Prendi queste che con l’uso si restringono. Disse don Peppino sbrigativo, indicandomi le più larghe; smentito dal padre che, forte di anni d’esperienza, sancì una verità. - Le scarpe con l’uso si allargano. Scelsi comunque quelle più larghe. I piedi mi dovevano crescere di più, e con le calze nuove di lana più spesse, dovevano andar bene anche subito. A casa Mamma sistemò tutto sulla poltrona verde del soggiorno, in modo che mio padre al ritorno potesse rendersi conto degli acquisti. E toccare con mano quanto costa ogni figlio, visto che aveva deciso di farne tanti. Il giorno di Natale eravamo tutti vestiti di nuovo. A capodanno rimisi gli abiti nuovi. Trascorsa la nottata sino all’alba con parenti e amici, mezzo assonnato, quel primo gennaio scesi da casa alle undici e, non vedendo il solito gruppo nei dintorni, sapevo dove cercarli. Al nostro campo di calcio trovai tutti in tenute di gara nuove fiammanti, evidenti regali trovati sotto il presepe, che facevano passaggi e tiri in porta sul terreno bagnato dall’umidità delle notte. Mi videro con gli abiti nuovi e tentarono di farmi colpire la palla in modo da sporcarmi. Mi scansai. Tentarono di nuovo ed evitai ancora la palla. Alcuni di loro, sapendo il padre che avevo, cercavano con quei lanci non richiesti di mettermi paura per quel che poteva accadermi tornando a casa sporco. Decisi di andarmene per evitare tentazioni pericolose. Pochi passi e mi sentii chiamare, voltandomi per rifiutare con un no definitivo. Il pallone mi stava scendendo incontro, non veloce, forse perché lanciato con le mani, ma preciso verso di me. Preso di sorpresa, ancora più sorprendente fu la mia reazione istintiva. Vidi il sinistro, che si alzava da solo, colpire in pieno la palla. Inconsciamente, improvvisamente, sconsideratamente, senza che potessi intervenire in un’azione di contrasto. Sporcata per sporcata, comunque dovevo ben pulirla la scarpa. Decisi così di scambiare qualche altro tiro con i compagni. E precipitai all’inferno. Mi tolsi il cappotto appendendolo a un ramo dell’unico albero rimasto nelle vicinanze. Le calze lunghe e i pantaloni corti avrei cercato di non sporcarli. E presi a fare passaggi con gli amici, mollando qualche tiro debole verso la porta. A un certo punto mi arrivò un passaggio saltellante in avanti. Ero a quindici metri dalla porta; calcolai che avrei dovuto metterci un po’ di forza in più se volevo fare gol. Seguii di corsa il pallone e all’ultimo rimbalzo impattai il sinistro sul pallone che continuò invece a saltellare beffardo, appena appena più veloce sino ai piedi del portiere che se la rideva nel vedermi ginocchioni e le mani nel fango. Tremai all’idea del padre furioso. Guardai rabbioso quei disgraziati dei miei amici che si sbellicavano. Ma il danno peggiore, irreparabile era più giù, quando scorsi, affogata nel terreno, la bella suola sinistra di caucciù, penzoloni come una lingua ansimante. Vidi materializzarsi tutta la tecnica da ex pugile mancino di mio padre, il cui sinistro pugno si abbatteva fra naso e denti, sentendo in anticipo un dolore amaro sopra il dolce sapore del sangue. Era accaduto che, nascosto nel fango, c’era uno spuntone di pietra sotterrata, sfuggito a quei miserabili dei “cavalli della Peroni”. Mi alzai scrollandomi il fango come cane rognoso. Ripresi il cappotto dall’albero e andai a rifugiarmi sotto il colonnato della palazzina più vicina. Riflettevo sul da farsi. Scapparmene da zia Mamma, come avevo già fatto dopo precedenti mascalzonate, non era possibile. Chissà da chi era stata invitata al pranzo di Capodanno. Solo due amici erano preoccupati di quel che mio padre avrebbe potuto farmi, conoscendolo bene per abitare nel nostro stesso portone, Enzo Manzo e Michele Dentico. Stavano escogitando un modo per aiutarmi. In poche battute avevano pensato a un diversivo per distrarre mio padre; ma era necessaria la collaborazione di mia madre. Fu la partecipazione di Mamma al rischioso piano che mi convinse ad accettare. Enzo e Michele, portandosi un borsone dietro, suonarono alla porta di casa. Aprì mia madre. Parlò Enzo che abitava proprio sopra di noi. - Signora Petino, è in casa Vito? Prima che Mamma rispondesse, chiese bisbigliando. - Signora, e vostro marito? - È in bagno a lavarsi. Alle cinque ci siamo addormentati, svegliandoci poco fa. Rispose bisbigliando anche lei. Aveva capito che la cosa riguardava suo figlio maggiore, e attese. Enzo raccontò quello che era successo e come si doveva rimediare. Mia madre tornò in casa per uscire pochissimi minuti dopo con un fagotto nelle braccia che i due misero in fretta nel borsone. Mi consegnarono il borsone sotto il colonnato dov’ero rimasto con gli altri, che avevano perso ogni voglia di ridere o scherzare. Le voci circolanti li avevano informati sui metodi duri di mio padre nel punirci. Alcuni confessarono di subire lo stesso trattamento dal proprio genitore in caso di disobbedienze. A quel tempo, sembrava generalizzato il modo di formare i propri figli con un bel mazziatone ad ogni rottura. Fu una gara di mano in mano per aiutarmi a togliere ogni indumento infangato e sostituirlo con quelli puliti del borsone. Levate scarpe e calze, sfilati i pantaloni, mani solidali ritirarono lo sporco ed altre mani mi consegnarono la corrispondente roba pulita. Il nuovo pullover sporco sostituito da uno usato e pulito. La camicia nuova era stata protetta dal pullover e non fu necessario cambiarla. Enzo provvide a mettere nel borsone i vestiti nuovi infangati. Con uno straccio inumidito che s’era portato in una tasca del borsone, provvide a darmi una ritoccata al viso, poi alle mani e alle ginocchia per ultime, togliendo i residui di fango. Presi il cappotto fortunatamente scampato alla frana, e lo infilai a coprire gli abiti vecchi. - Il borsone me lo porto a casa. Domani tuo padre lavora? - Sì … Risposi agitato. - Domani mattina ti porto la roba a casa tua. Prepara la scatola delle scarpe. Andiamo insieme da quel bravo calzolaio in quel portone di via Cardassi. Vediamo se può salvarti la sinistra. Tornammo in gruppo verso le nostre palazzine disperdendoci ognuno verso la propria. Io, Enzo e Michele entrammo nel nostro portone. Salimmo insieme la prima rampa al piano rialzato e strinsi la mano a Michele ringraziandolo. Al secondo davanti alla porta di casa abbracciai senza parole Enzo, che proseguì da solo al terzo. Venne ad aprirmi la porta mio padre. L’agitazione aumentò per paura che mi leggesse nel pensiero. - Su, su, Vitino, sbrigati che è quasi pronto. Oggi a tavola tutti insieme. Nei giorni lavorativi non si pranzava mai uniti in famiglia. Mio padre tornava dal lavoro in ferrovia alle cinque del pomeriggio. Andai nella mia stanza a togliermi il cappotto; in bagno a darmi una pulita più energica alle mani e al viso. Passai ben bene un asciugamani sulle ginocchia per togliere ogni traccia di fango sfuggita inavvertitamente. - Ma non ti eri messo i vestiti nuovi? Mi chiese Lilli, incrociato nel corridoio. - No. Con questi mi sento più comodo. E passai oltre, andando a prendere posto nella tavola imbandita alla destra di mio padre, posizione pericolosa per essere a portata del suo sinistro. Lilli si sedette sul lato opposto al mio. Mia madre a capotavola, di fronte a mio padre, con Elvira a destra e Tonino nel seggiolone a sinistra, per meglio imboccarlo. Al termine del pranzo c’era il rito della Strenna. Passavamo in fila a fare gli auguri di buon anno prima da mia madre e poi da mio padre che erano rimasti seduti ai loro posti. Babbo a quel punto apriva il portafoglio e prendeva due banconote da 500 lire e due monete da 100, donando le banconote a me e Lilli; le monete di Elvira e Tonino venivano affidate a Mamma. - Lilli, devo dirti di prendere esempio da tuo fratello grande. Nessuno ha notato che per non macchiare gli abiti nuovi ha preferito mettersi quelli di ogni giorno. Guarda sul tuo pullover quanti schizzi di sugo ci sono. Così conclusi una giornata che poteva finire veramente male. Ma due saette partite dagli occhi di mia madre mi costrinsero ad abbassare i miei …
  • francesco cito - ricordo, come se fosse ieri, gli accessori acquistati il 1967 in occasione del mio matrimonio dalla ditta Peroni.


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