Profughi. Nè lager nè albergo, alla scoperta del Cara di Bari: «Qui ci annoiamo»
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mercoledì 23 settembre 2015
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di Katia Moro
In Italia attualmente sono dislocate a Milano, Gorizia, Trapani, Caltanissetta, Crotone, Foggia e appunto, Bari, nei pressi dell’aeroporto di Palese. Per legge i profughi non dovrebbero soggiornarvi più di 35 giorni, ma di fatto la permanenza si protrae per più mesi se non per anni. Ciò avviene a causa delle lunghe attese che precedono la convocazione da parte delle Commissioni territoriali (quelle che concedono o meno il permesso di soggiorno) e perché a seguito di un esito negativo spesso viene presentato un ricorso che procrastina ulteriormente la permanenza nei centri.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
E così un Cara di grandi dimensioni come quello barese da 744 posti, si ritrova ad accogliere attualmente 1275 richiedenti asilo: quasi il doppio. Si tratta quasi esclusivamente di uomini, ad eccezione di una cinquantina di donne. Tra di loro ci sono duecento pakistani più di un centinaio di bengalesi e maliani, mentre il resto della popolazione è costituito prevalentemente da africani di varia provenienza.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Siamo andati nel Centro di accoglienza per vedere con i nostri occhi qual è la situazione di queste persone, di cui si parla tanto ma spesso senza dati oggettivi che possano permettere di esprimere un giudizio. (Vedi foto galleria)
Il Cara della città di Bari è nato nel 2008 in sostituzione di una roulottopoli gestita dalla Croce Rossa Italiana ed è ora amministrato dalla cooperativa potentina Auxilium. L’attuale direttore è il 35enne Angelo Colangelo e accanto a lui sono impiegati tra amministrativi, psicologi, assistenti sociali, legali, interpreti, mediatori, infermieri, medici e vari addetti alla pulizia e alla ristorazione, un totale di 174 persone.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
La sicurezza e l’ordine pubblico sono invece prerogativa dell’Esercito, che ha spesso compito gravoso di dover sedare i frequenti scontri e le risse che scoppiano tra etnie diverse anche per futili motivi. Perché è questo il principale problema del Cara: qui ci sono africani e asiatici, cristiani e musulmani, costretti a una convivenza forzata in spazi angusti, spesso stremati da una perenne inattività e attesa. La tensione è quindi sempre alta.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Una decina di militari ci accoglie all’ingresso, previa verifica di regolare permesso, nella ferma intenzione di scortarci allertandoci sulla pericolosità del luogo. Ma la bonaria figura del direttore amministrativo acquieta gli arrembanti addetti alla sicurezza che dopo i primi minuti di serrato controllo si dileguano, lasciandoci aggirare indisturbati. «I nostri ospiti non sono particolarmente aggressivi e riusciamo sempre a mantenere la situazione sotto controllo – ci spiega il direttore -. Rispetto ad altri centri dove è maggiormente diffusa droga e prostituzione, qui queste problematiche sono molto ridotte e si vive in un clima sufficientemente sereno. Chiaramente nei limiti del possibile data la situazione disperata di molti dei rifugiati».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Nel centro di assistenza legale ci spiegano che il loro primo dovere è quello di informare subito i residenti delle norme vigenti, come il divieto di introdurre oggetti dall’esterno, di cucinare all’interno degli alloggi, di uscire se non tramite il pullman del Cara negli orari stabiliti. Ma ognuna di queste norme viene puntualmente disattesa e questo lo si accetta senza eccessiva rigidità.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
A ognuno dei residenti viene rilasciato un “pocket money” giornaliero: una chiavetta contenente 2 euro e 50 centesimi da poter utilizzare solo nello spaccio del Cara per i beni di prima necessità. Ma in realtà i migranti le rivendono ad altri profughi e utilizzano il denaro per acquistare prodotti dall’esterno che poi vengono rivenduti nel centro stesso, in mercatini e negozietti di fortuna allestiti negli e tra gli alloggi. E non sono queste le uniche attività commerciali in cui i profughi si improvvisano: ad esempio a cielo aperto ci si imbatte infatti in poltrone con specchi e tutto il necessario per fare barba e capelli.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Anche il divieto di cucinare non sembra essere accettato dai profughi. Il cibo ritirato obbligatoriamente alla mensa per due volte al giorno in regolare e composta fila indiana, nonostante la varietà e completezza del menu, non è infatti apprezzato da quasi nessuno dei rifugiati che o se ne disfano del tutto buttandolo via o lo ricucinano all’interno degli alloggi su piccoli fornelli con aggiunta di spezie e condimenti che lo rendono più appetibile. «Questo cibo non ci piace. Noi siamo abituati a mangiare diversamente, con una cucina molto più speziata e aromatizzata», dichiara il 36enne eritreo Musè mentre è alle prese con i fornelli.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
L’ampia sala della mensa diventa così più che altro il fulcro della vita quotidiana, dove ci si incontra per una partita a biliardo o a pingpong. Ma un punto debole dell’organizzazione pare sia la comunicazione delle attività: spesso gli ospiti ignorano l’esistenza dei corsi e delle attività organizzate. Nessuno glielo dice. E così piuttosto che frequentare la piccola palestra allestita all’interno del centro o la saletta computer, ciondolano tutto il giorno in questi vasti spazi vuoti e anonimi, magari organizzando improvvisate partite di calcio o pallavolo. Più frequentate sono la moschea e la chiesetta cristiana, dove si svolgono anche le lezioni di musica. Gettonato è il corso di lingua italiana, anche se rispetto alle centinaia di persone presenti, la frequenza appare ancora esigua.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Al nostro arrivo alcuni dei residenti si avvicinano, vogliono parlare con noi e fare le loro rimostranze. Si lamentano innanzitutto del cibo che definiscono insapore e delle stanze troppo piccole e sporche. I profughi vivono in container ognuno dei quali è diviso in tre stanze, in ciascuna delle quali vi sono quattro ospiti su letti a castello che occupano tutto lo spazio a disposizione. Ogni nove container, ci sono i bagni. «Che sono rotti, non funzionanti e privi di acqua calda», si lamenta il 27enne afghano Hashim.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Hashim vive nel Cara da tre mesi (ma è arrivato a Bari un anno fa) e parla un italiano fluente che ha imparato fuori dal centro frequentando diverse associazioni. Ora propone al Cara numerose iniziative di quelle che ha potuto sperimentare all’esterno: una mostra fotografica e attività teatrali e artistiche, che gli sono state approvate. «Ciò che mi sono chiesto dal primo momento è perché mai non ci fossero libri all’interno del centro – afferma -. Come si fa a conoscere la cultura e la mentalità di un posto se non attraverso il libri?».
Il 23enne maliano Mamadu è invece al Cara da un anno oramai e la Commissione non ha ancora rilasciato un giudizio favorevole per fargli ottenere il permesso di soggiorno. Eppure il suo Paese è nelle mani dei terroristi che gli hanno ucciso tutta la famiglia. «Io ho chiesto di poter andare via dal Cara, ma finchè non ho i documenti non posso – afferma -. Nell’attesa del permesso di soggiorno rimango qui, ma non so che fare: mi annoio tutto il giorno. Aspetto solo il momento in cui devo andare a scuola per imparare l’italiano che voglio conoscere per poter comunicare e magari trovare un lavoro».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Ma il contatto con il resto della città è reso difficile dal numero troppo esiguo dei pullman messi a disposizione, che sono vecchi, sporchi, rumorosi e non sufficienti a contenere tutti i residenti del centro (oltre a muoversi ad orari prestabiliti). E così i profughi hanno preso l’abitudine di scavalcare i cancelli sul retro alti circa quattro metri, per attraversare i campi di privati inferociti e i binari con treni in corsa e infine raggiungere le fermate degli autobus di linea, spesso creando problemi.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
«Noi dovremmo essere una risorsa per questa città e dovrebbero sfruttarci meglio invece di segregarci e allontanarci – afferma Hashim -. Visto che siamo costretti a permanere così a lungo, perché non usare le nostre abilità e non insegnarci un mestiere, piuttosto che tenerci nullafacenti, demotivati e spingerci a delinquere ?».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
(Vedi galleria fotografica)
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Katia Moro
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