Aggressioni, minacce, occupazioni: il racconto dei volontari pugliesi in Cisgiordania
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mercoledì 17 dicembre 2025
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di Aya Aoiuchaoui
È questo il racconto di Eddie e Leila (nomi fittizzi usati per proteggere la loro incolumità): due 27enni pugliesi che dall’inizio di ottobre vivono nei pressi di Ramallah, in Cisgiordania, come volontari della campagna “Faz3a”. Quest’ultima è un’iniziativa a guida palestinese tesa a garantire una presenza internazionale in un territorio in cui i diritti dei palestinesi vengono spesso calpestati.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Eddi e Leila infatti negli ultimi mesi ne hannoviste di tutti i colori. Addirittura lo scorso 1° dicembre, mentre erano ospiti di una famiglia palestinese a Ein al-Duyuk, sono stati vittime di un’irruzione in casa da parte di coloni israeliani. Un “blitz” che si è ripetuto nello stesso villaggio il 13 dicembre, in maniera questa volta ancora più dura, visto che quel giorno non erano presenti in zona volontari stranieri.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
La Cisgiordania del resto è un territorio occupato da Israele dal 1967. In quest’area vivono circa 3 milioni di palestinesi e più di 700.000 coloni israeliani che risiedono in insediamenti considerati illegali dal diritto internazionale. Spesso ci sono tensioni violente tra coloni e palestinesi: aggressioni, espropri di terre, restrizioni alla libertà di movimento. Negli ultimi anni la situazione si è aggravata: gli attacchi dei coloni sono aumentati e l’occupazione si è consolidata.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Abbiamo quindi parlato con Eddie e Leila per comprendere meglio la delicata situazione cisgiordana.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Partiamo dal 1° dicembre: che cosa è avvenuto quel giorno?
Erano le 5 del mattino e stavamo dormendo in un appartamento di una famiglia palestinese situato nel villaggio di Ein al-Duyuk. Oltre noi due c’erano altri volontari: due italiani e una canadese. Ebbene a un certo punto la porta d’ingresso è stata sfondata e abbiamo visto dieci israeliani armati e mascherati venirci incontro. Ci hanno colpito con pugni, calci e bastonate al volto, alle coste, all’addome e alle gambe, il tutto al grido di «wake up, italians!» (“svegliatevi italiani”). Hanno quindi rovistato tra i nostri effetti personali e portato via passaporti e telefoni. E quando se ne sono andati hanno esclamato, minacciosi: «Don’t come back here» (“non tornate qui”). Noi però abbiamo risposto con fermezza, abbiamo detto loro che invece saremmo tornati. Perché questa è la nostra missione: testimoniare le continue violenze dei coloni israeliani nei confronti del popolo palestinese.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Evidentemente la vostra presenza li infastidisce. Ci spiegate meglio qual è il vostro ruolo in Cisgiordania?
Attualmente siamo circa 20 volontari presenti qui in Cisgiordania, per lo più giovani tra i 20 e i 30 anni. Veniamo da diversi Paesi: Canada, Usa, Germania, Italia. Viviamo nei pressi di Ramallah girando tra i villaggi per dedicare il nostro tempo alle famiglie palestinesi. Durante la stagione delle olive li aiutiamo nella raccolta e sosteniamo i loro progetti quotidiani: ricostruiamo case, accompagniamo i bambini a scuola e partecipiamo ad altre attività. Facciamo tutto in maniera pacifica e non violenta. Ma siamo qui anche per un’altra ragione: mostrare al mondo la vita e le difficoltà della popolazione palestinese. Ogni volta che possiamo fotografiamo e realizziamo brevi video di denuncia per condividerli su Internet. Faz3a pensa infatti che la presenza civile internazionale in Cisgiordania possa essere un “antidoto” alle forme di pressione coloniale e ai tentativi di isolare le comunità palestinesi più vulnerabili.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
In che modo viene esercitata questa “pressione”?
Noi siamo in zona A: una parte di territorio cisgiordano sotto il controllo dell’Autorità nazionale palestinese. Secondo gli accordi di Oslo non dovrebbe esserci alcuna presenza israeliana, ma non è affatto così. L’esercito può entrare praticamente ovunque e fare quello che vuole. Non c’è luogo dove le persone si sentano sicure: i soldati possono in qualsiasi momento controllare, perquisire e sorvegliare. Agiscono a tutela dei coloni. Le colonie sono insediamenti civili costruiti da cittadini israeliani con il benestare del governo sui territori della Cisgiordania. La comunità internazionale le considera illegali perché occupano terre palestinesi e limitano la libertà e i diritti della popolazione locale. Eppure non fanno che aumentare di numero. I coloni come detto agiscono con la protezione e la complicità dei soldati e spesso compiono atti violenti e intimidatori contro i palestinesi, come quelli avvenuti a dicembre.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Come avviene la formazione di una colonia?
Tutto nasce dagli “outpost” (nella foto uno a Beit Lid): insediamenti temporanei creati da coloni armati che occupano la terra, montano tende o moduli abitativi e iniziano a viverci. Queste strutture generano conflitti con le comunità palestinesi vicine, provocando aggressioni, incendi e intimidazioni. Lo scopo principale degli outpost è espandere il controllo territoriale, creare presenze israeliane in aree strategiche e mettere pressione alle comunità palestinesi per indebolire la loro presenza e accesso alla terra.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Ci potete fare degli esempi concreti?
I palestinesi hanno grandi difficoltà ad avvicinarsi ai loro ulivi, perché per raggiungere i campi devono per forza di cose attraversare aree colonizzate, anche per poche centinaia di metri, con tutti i problemi che ciò comporta. Una volta siamo andati a raccogliere le olive con le famiglie palestinesi e ci siamo trovati davanti a un checkpoint israeliano dove abbiamo subito controlli molto rigorosi. Quando hanno visto che eravamo italiani ci hanno detto: «Potete tornare indietro, ma i palestinesi devono restare qui: potrebbero entrare nella nostra zona e rappresentare un rischio». Con noi c’era un’anziana coppia palestinese: i soldati hanno strattonato i due e li hanno portati via in caserma senza alcuna ragione.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Com’è il vostro rapporto con le famiglie palestinesi?
All’inizio del nostro lavoro rimanevamo nello stesso villaggio per diversi giorni consecutivi, il che ci ha permesso di instaurare un contatto quotidiano e diretto con loro. Abbiamo trascorso tempo con i contadini, spesso mangiando nelle loro case, creando legami veri e mostrando solidarietà. Per i palestinesi la nostra presenza è importante: sentono di essere sostenuti nella loro lotta per un’esistenza serena.
© RIPRODUZIONE RISERVATA Barinedita

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