di Silvia Di Conno

La onlus che lavora con i carcerati: «I minori? Problematici. Le mamme quelle più motivate»
BARI«Le più motivate sono le mamme: sentono la responsabilità di aiutare i figli che sono a casa e questo le spinge a impegnarsi più degli altri». Sono le parole della 60enne leccese Luciana Delle Donne, che nel 2007 ha fondato la onlus "Officina Creativa”: una cooperativa sociale senza scopo di lucro che aiuta i detenuti a riabilitarsi attraverso il lavoro, riconoscendo loro un regolare stipendio.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Il brand “Made in carcere” attualmente opera a Bari nel carcere minorile “Nicola Fornelli” con la produzione dei biscotti vegani “Scappatelle” e a Trani, Lecce, Taranto e Matera con laboratori di sartoria che realizzano borse, braccialetti, cuscini e accessori.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Abbiamo intervistato la fondatrice del progetto per capire quali siano le problematiche e le dinamiche che si innescano nel momento in cui si opera a stretto contatto con chi è ai margini della società.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Qual è la storia di “Made in carcere”?

Abbiamo iniziato nel 2007 a Lecce e poi, in Puglia, ci siamo espansi a Trani, Taranto, Matera e Bari. Nel capoluogo pugliese lavoriamo soprattutto all’interno dell’istituto minorile maschile “Fornelli”, dove abbiamo avviato il primo progetto in ambito food: un laboratorio di produzione artigianale di biscotti vegani. Nelle altre città ci siamo invece specializzati nelle sartorie sociali. Tutti prodotti che vendiamo online o attraverso vari canali e negozi. Il modello economico alla base della onlus è riparativo e trasformativo, perché chi è detenuto concede a se stesso, attraverso il lavoro, la possibilità di perdonarsi e ricostruirsi una vita. E in maniera speculare chi è fuori e compra le opere realizzate contribuisce alla riabilitazione dei detenuti regalando loro una seconda opportunità.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

A Bari quindi lavorate con i minori: è più difficile farsi accettare dai giovani?

In effetti sì. I “minori” (che vanno dai 15 ai 25 anni) non hanno un approccio molto costruttivo. Soffrono l’ambiente familiare disastrato di partenza e sono violenti, pieni di rabbia e rancore nei confronti della vita. È necessario motivarli moltissimo per convincerli che il lavoro possa cambiare il loro percorso. Ogni giorno facciamo sì che preparino dei biscotti a forma di cuore, le “Scappatelle”, che richiamano i concetti di bellezza, famiglia, amore e cura. La speranza è che scoprano questi valori che per loro sono sempre stati estranei. 

E ci state riuscendo?

Il problema vero nasce quando sono in gruppo. Scattano in quel caso le dinamiche del  “branco”: i ragazzi tendono a essere facilmente irascibili e a procurare liti e discussioni. La vera sfida è quella di riuscire a trasformare questa “rabbia” in energia positiva, portandoli a essere collaborativi tra di loro. E i risultati si stanno vedendo.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)


Dal punto di vista organizzativo incontrate difficoltà?

Se nelle carceri per adulti si ha un’idea più definita della durata della pena ed è possibile quindi organizzarsi di conseguenza, in una struttura detentiva minorile è difficile svolgere un programma continuativo. Vi è spesso un ricambio imprevedibile per svariati motivi: i ragazzi possono essere trasferiti o sospesi perché, ad esempio, hanno litigato. E poi nel caso in cui abbiano commesso infrazioni non scendono a fare il laboratorio, ma vengono “messi in punizione” in stanze molto piccole, dette “di pernottamento”. Ci sono infine ragazzi che si assentano durante le ore di lavoro perché hanno ottenuto una detenzione attenuata, grazie alla quale possono muoversi verso altre realtà.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Nelle altre città lavorate invece più che altro con le donne…

Sì, sono le più motivate. Il 90% di loro è infatti mamma e sente la responsabilità di mantenere e aiutare i figli che sono a casa. E grazie al nostro stipendio, ci riescono. C’è quindi una ragione in più a spingerle a impegnarsi più degli altri.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

E invece gli uomini non sentono questa necessità?

Per ragioni esclusivamente culturali tendono a far emergere meno la loro sensibilità e l’attaccamento alla famiglia. Sono comunque, in generale, ben disposti al lavoro.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Parlate mai con i detenuti dei reati che hanno commesso?

No, né conosciamo i reati né ne parliamo. È una regola tacita. Altrimenti il rischio sarebbe quello di giudicarli e farsi un’opinione distorta. Noi dobbiamo invece costruire nel presente un nuovo futuro.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Quanto è importante operare in un contesto accogliente?

È decisivo. Prima di avviare il progetto in una struttura penitenziaria ci accertiamo sempre che ci siano due requisiti minimi: gli spazi per il laboratorio e quelli per la socialità. Crediamo nel valore della bellezza ed eleganza di questi luoghi: amiamo arredarli con mobili, divani e tappeti, come se fossero una casa per queste persone.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Ritiene quindi che operare in maniera produttiva all’interno del carcere possa aiutare i detenuti a rifarsi una vita?

Assolutamente. Grazie all’acquisizione del ritmo di lavoro e del senso di responsabilità, la maggior parte dei detenuti non fatica a reinserirsi in società. Qui le persone imparano a vivere in modo diverso, capiscono che ricominciare è possibile. E per noi è motivo di grande soddisfazione comprendere di aver aiutato qualcuno a ricostruire la propria dignità e identità.


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