di Marianna Colasanto

La storia di M, carcerato abituale: «Negli anni 70 più severità, ma oggi c'è sovraffollamento»
BARI – «Il carcere negli anni 70 era molto severo, bastava una piccola infrazione per essere puniti. Oggi invece c’è meno rigore, ma vivere in galera è diventato impossibile: i luoghi di reclusione sono infatti sovraffollati». Sono le parole di M.D., 64enne barese che per quarant’anni non ha fatto altro che entrare e uscire di prigione per via della sua “attitudine” nel commettere scippi, furti e rapine.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Lo abbiamo intervistato per capire com'è cambiata la vita detentiva nel corso del tempo, perlomeno tra il 1970 e il 2010, date che corrispondono al suo primo e ultimo ingresso in cella.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

La sua esperienza carceraria è iniziata molto presto...

Sì, ad appena 14 anni entrai in riformatorio giudiziario (un istituto che venne poi soppresso nel 1988). Fui colto in flagrante dalla Guardia di Finanza mentre rubavo un’autoradio da una vettura parcheggiata vicino allo Stadio della Vittoria. E così inaugurai il mio percorso detentivo: fui portato al Fornelli, il carcere minorile di Bari. Lì le guardie mi diedero il “benvenuto” prendendomi a schiaffi davanti agli altri ragazzi, per dimostrare, credo, chi comandasse lì dentro. Per prima cosa mi tolsero tutto ciò che avevo, mi rasarono i capelli a zero e consegnarono la divisa: t-shirt bianca e pantaloni blu, assieme a un pezzo di sapone, dentifricio e spazzolino.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Com’era la vita all’interno del riformatorio?

In cella c’erano massimo cinque persone. Gli ambienti erano spogli, essenziali, non c’erano letti a castello ma brandine attaccate al muro che venivano tirate e adagiate sul pavimento quando si andava a dormire. Le finestre erano a “bocca di lupo”: avevano cioè un’apertura ristretta, giusto per far filtrare la luce e scongiurare così tentativi di fuga. C’era una radio affissa al muro e un tavolo costituito da un blocco di pietra tutt’uno con il pavimento. Lo stesso valeva per la seduta. Alle 8 del mattino passavano le guardie per la conta dei detenuti: dovevamo farci trovare lavati e vestiti in piedi davanti ai nostri letti rifatti.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Le guardie come vi trattavano?

Severamente: bastava una piccola infrazione per essere puniti anche a suon di botte. Una volta un giovane, durante la fila che si faceva quando si usciva dai laboratori, non mise come da regolamento il braccio sulla spalla del compagno davanti e un agente lo prese a calci. Con un minimo errore che partivano le “mazzate”. Noi non sopportavamo questo trattamento e così una notte organizzammo una rivolta. Ma ne pagammo le conseguenze: io e altri dieci fummo spediti nel carcere minorile di Villà Bobò, a Lecce.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Perché, era un istituto più “duro”?

Sì, fummo mandati lì per avere una lezione e così accadde. La prima notte ci rinchiusero in una “campana”: una cella in cui a malapena riuscivi a stare in piedi. E se provavamo ad accasciarci per dormire ci sparavano contro dell’acqua con gli idranti. Poi, dopo averci lasciati senza cibo per due giorni, ci diedero un pezzo di formaggio in quattro e ci misero in un altro ambiente in condizioni igieniche pessime, con un bagno alla turca da cui sgorgava continuamente l’acqua sporca. Stemmo lì per due mesi, poi per fortuna fummo rimandati al Fornelli.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Quanto tempo ha trascorso nel carcere minorile di Bari?

Quasi tutta l’adolescenza: entravo e uscivo continuamente, vista la mia attitudine a compiere furti e rapine (mai a con pistole però, solo coltelli). Tra l’altro una volta scontata la pena passavo anche del tempo negli istituti di rieducazione, che avevano il compito di insegnarti un mestiere. In uno di questi imparai a fare l’elettricista. A 17 anni una mia foto apparve su un quotidiano locale: mi immortalava in manette scortato dagli agenti (nell’immagine). Nella didascalia c’era il mio nome e cognome e l’età sbagliata di 19 anni. Io i 18 anni li compii invece in prigione e una volta maggiorenne, nel 1974, fui trasferito nel carcere “grande” di Bari, il Francesco Rucci.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)


Lì come è andata?

Le condizioni erano simili a quelle del Fornelli, se non peggiori: una volta sbucò un topo in cella che mi mangiò una ciabatta. Tentai anche di scappare. Io e un mio compagno ingerimmo dei chiodi piegati, in modo da non farci bucare lo stomaco, certi che in questo modo ci avrebbero mandato al Policlinico lì dove saremmo potuti fuggire via. Ma quando venimmo visitati in carcere i medici si accorsero che gli oggetti potevano essere espulsi senza andare in ospedale: ci rinchiusero così in una “gabbia” facendoci mangiare patate lesse per due giorni.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

In che modo si passava il tempo?

Ci chiudevano in cella solo per dormire: durante il giorno potevamo infatti girare per andare a trovare gli altri e giocare a carte. Nel passeggio comune si trovava anche un televisore e ogni detenuto aveva intestato un libretto grazie al quale poteva comprare qualcosa nello spaccio. Anche dietro le sbarre avevamo comunque la possibilità di leggere e realizzare manufatti, come navi in bottiglia o centrini, attività che tenevano la testa impegnata e ti facevano pensare il meno possibile alla condizione che stavi vivendo.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Gli anni 70 e 80 registrarono anche l’arresto di persone che avevano commesso reati “politici”.

Sì, durante gli Anni di Piombo entravano in galera persone magari arrestate durante degli scontri in piazza: non delinquenti comuni quindi. Si trattava di gente istruita che rese noialtri più consapevoli dei nostri diritti. Cominciammo così a lottare per ricevere un trattamento più umano e iniziarono le rivolte, che a quei tempi erano all’ordine del giorno. La più eclatante avvenne nel 1978, a seguito del sequestro di Aldo Moro. In quel periodo stava per essere emanata una legge che consentiva una riduzione della pena, ma fu bloccata a seguito del rapimento, scatenando ribellioni in tutte le carceri d’Italia.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Le proteste portarono a dei cambiamenti?

Con la Legge Gozzini del 1986 le cose si trasformarono. La norma perfezionò i benefici introdotti dalla legge 354 del 1975, consentendo, ad esempio, di avere sconti di pena, licenze premio e detenzione domiciliare. Pertanto le liti tra detenuti diminuirono e il clima diventò più disteso, visto che tutti noi  avevano l’interesse a comportarci meglio per avere delle licenze. Negli anni 90 la vita in carcere si trasformò radicalmente.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

In meglio quindi…

Di sicuro. Ottenemmo la televisione in cella, più docce e una maggiore quantità di cibo. Non avevamo più l’obbligo di essere pronti alle 8 del mattino, anche se c’era meno possibilità di girare durante il giorno. Si usciva esclusivamente durante le due “ore d’aria” previste, in cui si poteva però giocare a calcio, a ping pong o a biliardo. In carcere poi cominciarono ad accedere associazioni di volontariato che organizzavano corsi di formazione; l’obiettivo era quello di insegnarti qualcosa così da tentare, una volta fuori, di trovare un’occupazione. Io alcune volte ottenni anche la semi libertà: durante il giorno avevo il permesso di andare a lavorare (facevo l’autista), ma la sera dovevo rientrare in carcere.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

L’ultimo anno in cui lei è stato in galera è stato nel 2010: quarant’anni dopo la sua prima esperienza. Cosa è cambiato realmente oggi rispetto agli anni 70?

Di sicuro il carcere di allora era molto più severo di quello attuale, eppure oggi vivere in galera è diventato quasi impossibile. Da parecchi anni infatti le carceri italiane sono sovraffollate, piene di individui che scontano qualsiasi tipo di pena. In più vengono arrestati sempre più immigrati, persone che prima non vivevano nemmeno in Italia. Così c’è sempre caos. E tra celle piene e chiasso a tutte le ore, i detenuti non riescono a stare in pace. Risulta quindi difficile dedicarsi alla lettura e a tutte quelle attività necessarie per far passare il tempo più velocemente, quelle che ti permettono di sopravvivere all’interno di una prigione.


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