Emozioni forti e lavoro, le nuove dipendenze: «La noia fa paura»
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mercoledģ 29 luglio 2015
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di Marina Lanzone
Solo che a volte ci sono dipendenze la cui diagnosi appare complicata e su cui la medicina ancora deve esprimersi ufficialmente, ma che sono guardate con particolare preoccupazione dagli addetti ai lavori. Oggetto di studio sono ad esempio i sensation seekers e i workaholic.
I primi, letteralmente i “cercatori di emozioni”, sono coloro che sono alla continua ricerca di situazioni forti, intense, al limite del pericolo. Paracadute, deltaplani, bungee jumping, corse in auto sono il loro pane quotidiano, praticati spesso senza troppi controlli e sicurezze, con il rischio di “lasciarci la pelle”. I secondi invece, i “dipendenti dal lavoro”, presentano un attaccamento eccessivo alla loro professione, fisico ma soprattutto mentale, visto come unico porto sicuro e fonte di gioia e che li porta a trascurare il resto della loro vita, coniugi e figli inclusi.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Abbiamo parlato di queste due patologie con la dottoressa Annarosa Pagliarulo del centro Cipparoli di Giovinazzo, che si occupa di dipendenze da 30 anni a questa parte.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Quale meccanismo fa scattare la dipendenza da emozioni forti?
È il risultato di un’esplorazione negativa. È giusto dire che l’esplorazione è un meccanismo assolutamente naturale. L’uomo inizia a esplorare immediatamente dopo la nascita, è parte del suo istinto. Individua così tutti i comportamenti utili, cioè ripetibili, finalizzati a un obiettivo che vengono coadiuvati da un “rinforzo” qualitativo: il piacere. Questo “aiutino” ci permette di apprendere meglio e più velocemente. L’esplorazione porta quindi risultati “piacevoli”, che ci conducono alla ricerca continua di nuovi territori. Ma spesso il rischio è di farsi prendere la mano da queste emozioni: per ottere un piacere più intenso si va incontro a situzioni anche di pericolo. Diventa quindi un’esplorazione negativa, un meccanismo che se ripetuto può portare alla dipendenza.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Ha a che fare con l’adrenalina?
Sì e no. Fisiologicamente la sensazione di benessere scaturisce dal rilascio di alcune sostanze, che come droghe “interne” portano piacere ed eccitamento, andando a stimolare la zona libica del cervello, sede di tutti i sistemi motivazionali, tra cui quello della stessa esplorazione. Ma è giusto specificare che non sono le sostanze in sé a creare un’eventuale dipendenza, quanto le emozioni ad essa associate. Non si è dipendenti dall’adrenalina, ma dalle emozioni. Contro ogni aspettativa, la maggior parte di queste sostanze “piacevoli” vengono rilasciate in maggiore quantità nella fase preparatoria all’azione vera e propria. “L’attesa è essa stessa il piacere”, è proprio il caso di dirlo.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Quindi bisognerebbe astenersi dal provare un piacere intenso?
No, perché non tutti entrano nella fase della dipendenza. Si parla di dipendenza solo quando il pensiero dell’attività rischiosa diviene totalizzante, occupa l’intero arco della giornata e ostacola qualsiasi altra attività o relazione sociale. Vedremo che lo stesso varrà per il lavoro. Non tutti gli amanti di sport estremi sono quindi malati, così come non tutte le persone che sono dedite al lavoro. La patologia può diventare un vero pericolo quando la persona si orienta verso esplorazioni negative sempre più estreme, fino a mettere in pericolo la propria vita.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
D’accordo, ma come fare a capire quando bisognare dire basta all’esplorazione?
Diciamo che le persone “normali” tendono a non superare una certa soglia: esplorano, ma poi capiscono che se vanno avanti, se esagerano, rischiano di entrare in territori rischiosi.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Che vuole dire, che si nasce dipendenti?
Diciamo che soggetti con un temperamento “audace”, tendono a essere più esposti a esplorazioni negative. Ma in realtà non basta questo, è necessario essere stimolati per poter poi divenire a rischio dipendenza. Facciamo un esempio: prendiamo un bambino spericolato o fortemente competitivo. Se gli adulti elogiano i suoi “prodigi”, l’approvazione ricevuta provocherà nel piccolo piacere e questo lo confonderà: non riuscirà più a capire che quel comportamento è rischioso o inadeguato.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Quindi è l’ambiente esterno che porta alla patologia…
Sì, le psico-patologie sono sempre lo specchio della realtà in cui viviamo. Ora siamo in una società iper-adrenalica, fobica della noia e della quiete: situazioni in realtà naturali, che seguono sempre le azioni e servono al cervello per rielaborare le informazioni, per poi condurre a nuove attività. La noia è la madre della creatività. E quindi nel momento in cui si sfugge la quiete, si vanno a ricercare situazioni in cui “si è tanto”: il lavoro o uno sport estremo. Arrivano le prime forme di gratificazione e la situazione col tempo degenera. Insomma le persone dipendenti sono delle pecorelle nere, ma in un gregge di pecore grigie.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Parliamo ora della dipendenza da lavoro.
Anche qui è importante il tempo che si dedica alla propria attività, soprattutto mentalmente. Per intenderci: si può essere occupati per 12 ore ma poi tornare a casa e stare in famiglia e pensare ad altro, oppure al contrario si può lavorare solo un’ora ma tornare con la mente sempre al lavoro, per tutto l’arco della giornata. In questo caso è possibile parlare di un workaholic. Il lavoro diventa l’unica attività gratificante e tutti gli interessi ed energie convergono su di esso, a discapito di qualsiasi relazione sociale..Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Si può capire a un certo punto di essere diventato un workaholic?
Le persone dipendenti dal lavoro difficilmente si rivolgono alle strutture come la nostra, perché non hanno la consapevolezza adeguata per chiedere aiuto. E’ solo quando sorgono i primi cardiovascolari, gastro-intestinali e allergici si capisce che dietro tutto ci può essere uno stress da lavoro. È il medico di famiglia che dovrebbe far risalire questi problemi di salute a un malessere mentale e far in mondo che si intervenga sui due fronti.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
E per i sensation seekers?
Anche qui, chi arriva in comunità sono giocatori d’azzardo compulsivi o persone che fanno uso di droghe. Solo durante la terapia ci rendiamo conto che questi atteggiamenti afferiscono alla dipendenza da emozioni forti.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Esiste quindi una terapia?
Comunemente si pensa che là dove si evidenzia una dipendenza bisogna eliminare la sostanza o il comportamento. Ma non sempre è possibile abituare il paziente al non uso, talvolta è necessario agire alla base, insegnandogli ad autoregolarsi, a gestire quegli stimoli presenti nella quotidianità e sui quali ha perso il controllo. L’unica possibilità di salvezza è quella di imparare a gestirsi.
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Scritto da
Marina Lanzone
Marina Lanzone