di Mariangela Dicillo

I ''margini'' di Bari: all'ombra dell'Ikea fabbriche, chiese, ex discoteche
BARI – “Darkness on the edge of town” è una famosa canzone di Bruce Springsteen che parla di alcuni ragazzi che si muovono e vivono non in una normale “periferia”, ma ai “margini” della città, lì dove regna l’“oscurità”. E’ proprio al cantante americano che pensiamo ogni volta che costeggiamo una zona situata appunto alla fine di Bari, poco prima di imbeccare la veloce statale 100 e di lasciarci case e palazzi alle spalle.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Si tratta di Mungivacca (eh sì, purtroppo il nome è proprio quello), ma della parte più a sud-est del quartiere, dove non ci sono abitazioni, ma grandi scheletri di ex fabbriche con al loro interno ancora prodotti e resti (anche pericolosi) del loro glorioso passato, dove sono situate nascoste agli occhi dei passanti una caserma, una stazione ferroviaria, una ex mitica discoteca, addirittura una chiesetta, il tutto all’ombra del colosso del legname sorto appena 7 anni fa: l’Ikea. (Vedi ampia galleria fotografica)

Parliamo di una zona staccata dal resto della città (vi si accede o da uno svincolo della statale o da una strada secondaria), ma che in realtà è stata sempre profondamente legata a Bari, viste le industrie e i “luoghi di interesse” che l’hanno sempre caratterizzata.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Usiamo il passato perché ora questa zona è diventata “patrimonio” dell’Ikea: è il grande capannone blu e giallo a dominare la scena. Tutto qui è regolato in funzione a essa: il n. 22 dell'Amtab, che fa lì capolinea, ha una fermata in più vicinissima alla struttura, un McDonald's ha aperto lì di fronte per accogliere i clienti dopo le “intense” sedute di shopping, la linea ferroviaria offre una corsa di andata e ritorno da Bari Centrale e un parcheggio gratuito (che di sera diventa luogo di incontro per scambisti) è stato organizzato alle spalle della stazione con un parchetto con panchine e spazi per bambini.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Ma quella parte della città al di là di via Amendola, molto prima di essere colonizzata dalla “regina svedese”, aveva storie, ma soprattutto luoghi da raccontare. Basti pensare al Camelot (che cambiò nome più volte per chiamarsi Adamo ed Eva, Jimmy'z e infine Phoenix), probabilmente la discoteca più importante di Bari, che per tutti gli anni 80 e 90 attirò migliaia di ragazzi in cerca di una “notte diversa”.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Un locale che appariva comunque piccolo in confronto alle fabbriche dalle alte canne fumarie che lo circondavano. Edifici che ora sono chiusi, con i vetri delle finestre rotti, le parti in ferro arrugginite, parte dei muri crollati. Anche se a dire il vero “chiusi” questi edifici non lo sono proprio del tutto. Da una porticina di un edificio verde scuro infatti si riesce a entrare dentro quello che è l’ex oleificio “Sapio”.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Cumuli di rifiuti, mura in frantumi, intonaco, polvere e cattivo odore ci accolgono all’interno. Entriamo in una stanzetta, troviamo un carrello dell’Ikea e delle scale che salgono verso l'alto. Su ci sono delle persone, due donne e cinque uomini che sembra proprio che vivino lì dentro. A giudicare dal loro accento sembrano georgiani. Non facciamo neanche in tempo a chiederglielo però: con aria minacciosa ci dicono di andar via. Facciamo dietrofront e troviamo gli uffici amministrativi.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Sulla parete in fondo alla stanza, un calendario fermo al gennaio del 1996. Sul pavimento detriti, una scrivania rovesciata, fascicoli, provette in vetro, un timbrino della ditta, una videocassetta del 1993, fascicoli con gli elenchi delle "sostanze grasse" aggiornati anno per anno e alcuni bottiglioni. Sono ovunque, anche in alcuni frigoriferi. Le etichette recitano: solfuro di Carbonio, Cs2. Un composto altamente infiammabile, irritante e tossico. Forse non dovrebbe stare lì, incustodito. Una piccola salita ed eccoci dinanzi a centinaia e centinaia di lattine di olio impilate una sull'altra. Alcune sono vuote, altre piene, alcune misurate in galloni, forse per il commercio all'estero. Il pavimento è scivoloso e appiccicaticcio: c'è ancora olio per terra.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)


Andiamo via e ci troviamo catapultati, mentre scavalchiamo un piccolo muretto, in un'altra realtà. Davanti a noi due edifici distinti. Il primo è la vetreria della Sapio in cui ci sono centinaia di bottiglie abbandonate e carta per imballaggi, il secondo ha colori diversi. È sempre bianco, ma con tutti i dettagli celesti: le porte, le inferriate, le ringhiere, le finestre, alcune mattonelle del pavimento. Sulla porta c'è il logo della "Sanson", la ditta produttrice di gelati. Anche qui uffici stracolmi di detriti, fascicoli e carte. Scendiamo, usciamo dal lato opposto rispetto a quello da cui siamo entrati e da lì entriamo nel luogo dove probabilmente venivano prodotti i gelati: le macchine industriali non ci sono più, solo rifiuti, insegne che intimano a non manovrare le macchine, componenti elettrici e pareti nere.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Usciamo da lì, respiriamo e ci dirigiamo verso un’altra meta: la piccola stazione. Un'insegna verde luminosa reca scritto "Mungivacca" in stampatello bianco. Entriamo nella biglietteria. Due signore sono sedute su un divanetto rosso, aspettano il treno. Dei ferrovieri sono sulle strisce di cemento e asfalto tra i binari con due bandierine in mano, una rossa e una giallo chiaro, probabilmente in attesa del treno. Una piccola locomotiva rossa arriva infatti pochi minuti dopo. Ripartita fermiamo uno dei ferrovieri e gli chiediamo il perché delle bandierine. E lui ci risponde: «Da quando ci sono stati degli incidenti e delle persone sono rimaste ferite per aver attraversato i binari, usiamo sempre le bandierine per avvisare chi guida il treno che va tutto bene. È impegnativo, ma si deve fare».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Usciamo dalla stazione e andiamo verso la caserma dell'Aeronautica. La caserma più “nascosta” di tutta Bari. Una struttura bianca su cui spicca l'insegna blu “Aeronautica militare. Manutenzione autoveicoli”, si innalza oltre un passaggio a livello. Ogni tanto, una macchina esce da lì. Altre invece si avvicinano e dopo il riconoscimento alla portineria, vengono abilitate ad entrare. Accanto all'edificio ci sono le poche e piccole abitazioni del luogo, piccole case che hanno molti decenni sulle spalle.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Torniamo un po' indietro, prima del passaggio a livello. Sulla sinistra notiamo il capolinea dell'Amtab e un vecchio cartello che indica una fermata di chissà quanti anni fa. Una viuzza stretta parte da quel punto e si inoltra fino a raggiungere la città. La imbocchiamo e qui troviamo una chiesa minuscola. Sulla facciata c'è un'icona in muratura che raffigura San Nicola con in una mano il bastone miracoloso e nell'altra le celeberrime "tre palle". La porta non si apre. Ci rivolgiamo allora a un vivaio che si trova nelle vicinanze. Una signora sulla quarantina che lavora lì ci dice: «La chiesetta era aperta quando ero piccola io, ma non si celebravano i riti religiosi, si poteva entrare solamente». Ma non sa dirci altro. La chiesa non è citata negli elenchi dei luoghi sacri di Bari. Si tratta forse di una cappella privata? E in questo caso a chi appartiene?

Con queste domande nella testa continuiamo lungo la stessa via. Qui ci sono due oleifici ancora attivi e un casolare di campagna abbandonato. Poi la strada si inerpica, passa sotto un ponte e si conclude alla rotonda di via Amendola. Siamo alla fine del nostro viaggio in un piccolo pezzo di città, che racconta di una Bari diversa, “industriale”, decadente ma con tante storie da raccontare. Bari è anche questa.


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  • Micaela - Preciso che la proprietà e gestione del Phoenix non ha nulla a che vedere con il Camelot e i suoi solo cambiamenti di nome commerciale..dopo la chiusura del Jimmi'z il resto non è più la storia delle discoteche di Bari per quanto concerne quella struttura.


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