di Eva Signorile

La ''Ferocia'' di Nicola Lagioia: un anti-noir in cui le ombre contano più delle parole
Se siete in cerca di un libro rilassante, da sfogliare sotto l’ombrellone, abbandonate subito l’idea di leggere “La ferocia” il romanzo del barese Nicola Lagioia, recente Premio Strega 2015. Sì perché la storia della famiglia Salvemini, ricca stirpe di palazzinari è tutto fuorché una riposante lettura estiva.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Sfondo del romanzo: la Puglia, con particolare attenzione per Taranto e qualche pennellata più consistente per Bari, ma compaiono anche il Salento e il Gargano, dove insiste il complesso di villette per le vacanze a rischio sequestro da parte della magistratura e fonte di inevitabili crucci per Vittorio Salvemini, fondatore e capostipite dell’impero edile con progetti in tutti gli angoli del pianeta.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Vittorio è un parvenu dei tempi moderni, l' evoluzione di quel Mazzarò tutto teso nell’accumulo de “ La roba” nell’omonima novella verghiana. Ma siamo nella Puglia attuale e non nella Sicilia di fine Ottocento: qui non c’è più spazio per le terre da coltivare, il nuovo Dio da perseguire è quello del mattone, una divinità mostruosa alla quale Vittorio è disposto a sacrificare finanche gli stessi figli.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Ma dalla galleria dei “mostri” dipinti dall’autore (giudici corrotti, medici complici, geometri troppo zelanti e giornalisti conniventi) si distinguono Clara, figlia legittima di Vittorio e Annamaria, e Michele, frutto di una relazione extraconiugale di Salvemini senior. Clara e Michele: due cuccioli, due simili che si riconoscono sin da subito, pecore nere di una famiglia di anaffettivi e cinici, quindi i soli capaci di sabotare il meccanismo e mandarlo in frantumi.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Ma Clara muore, forse suicida, o forse no, all'inizio della storia: toccherà a Michele fare luce sulla fine di sua sorella tornando da Roma in una Bari che appare solo in filigrana: qualche strada, l'insegna di alcuni negozi che sfilano dai finestrini di un'auto, gli anonimi parcheggi di altrettanto anonimi centri commerciali, persino una lussuosa salumeria. Un luogo che potrebbe esserne molti altri ancora, perché quello che conta davvero sono gli uffici in cui trafficano i personaggi, le loro realtà interiori, i ricordi di quei tanti momenti che, vissuti anche in epoche lontane, hanno portato alla morte di Clara.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)


Un romanzo che, più che un noir è un “anti-noir”: del resto "l’investigatore per caso" è lo stesso Michele, non un detective, né un avvocato di fama, ma un mezzo fallito che fa non si sa bene cosa (un giornalista, forse?) al sicuro nella Capitale, lontano dalla famiglia, mentre le sue “indagini” non sono guidate tanto dal bisogno di sapere, quanto piuttosto da quella forza misteriosa che lo attrae verso la sorella, anche ora che è morta, come se fosse la voce di Clara e non la ragione, a trascinarlo verso la verità.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Una storia che potrebbe essere banale, nella realtà di stupri ambientali, abusi edilizi e corruzione in cui ci dibattiamo, ma che nella penna di Lagioia si rivela un bellissimo marchingegno costruito con una scrittura spesso tanto “scarnificata” che le frasi, a volte, sembrano piuttosto appunti per una sceneggiatura in cui i gesti e le ombre negli sguardi contano più delle parole.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Nelle sue 411 pagine, “La ferocia” racchiude mille e una vicenda, incastrate in una complicatissima struttura a mosaico in cui ogni frammento, anche il più apparentemente insignificante, si spiega un po’ più in là, quando va ad occupare il suo posto preciso in questo affresco della società, barese forse solo per comodità dell’autore, ma di fatto tragicamente universale.


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