La figura del Data Protection Officer, sentinelle del dato personale
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venerdì 9 maggio 2025
di ARTICOLO SPONSORIZZATO
I consulenti e i referenti Privacy denominati Data Protection Officer (DPO) sono figure nate tra le pieghe della burocrazia europea ma cresciute nell’urgenza concreta del mondo digitale. Non si tratta di semplici custodi di moduli o pareri scritti a penna: il loro compito si gioca su più fronti, con una delicatezza che rasenta l’equilibrismo. Il GDPR, tanto celebrato quanto temuto, ha assegnato loro un ruolo che va oltre le formule giuridiche: quello di sentinelle del dato personale, ponte tra ciò che è lecito fare e ciò che è eticamente giusto tutelare.
Dentro aziende pubbliche e private, grandi o piccole, un DPO muove i fili invisibili della fiducia. Non è solo la legge a volerlo, ma una necessità culturale che cresce, ora dopo ora, con ogni click, con ogni consenso dato alla leggera, con ogni “accetta i cookie” premuto distrattamente. Nei casi previsti dalla normativa, la sua presenza è obbligatoria. Avere in azienda un DPO, oggi, è come avere un ombrello quando il cielo è scuro e carico di pioggia digitale.
Operatività del DPO
Il Data Protection Officer lavora spesso dietro le quinte, ma le sue decisioni plasmano interi processi. Sorveglia, consiglia, avvisa. Non impone – non potrebbe – ma orienta, con discrezione, senza mai perdere di vista l’obiettivo: far combaciare le regole con l’operatività. Non è un poliziotto della privacy, piuttosto un supervisore, che tiene in armonia norme, interessi aziendali e diritti fondamentali dell’utente.
Dalle valutazioni d’impatto alla gestione delle segnalazioni, dalla formazione interna all’interlocuzione con le autorità di controllo, un DPO si muove in equilibrio su una corda tesa tra conformità e pragmatismo. È la memoria istituzionale del dato, il filtro che separa l’uso corretto dall’abuso. E lo fa in modo autonomo, libero da pressioni, come richiesto dalla legge e come impone il buon senso.
Nel caos ordinato delle normative europee, una figura del genere non può permettersi incertezze. Ecco perché serve preparazione, intuito, sangue freddo. Un DPO deve sapere come si funziona un server e come si muove un garante, comprendere i flussi, decifrare i processi, parlare con tecnici e con giuristi con competenza.
Un mestiere che si impara sul campo, ma nasce dalla formazione
La complessità di questo ruolo impone un percorso formativo solido, strutturato. Ed è proprio per questo che sempre più aspiranti DPO decidono di affidarsi a corsi completi, aggiornati, capaci di trasmettere più di una semplice infarinatura normativa. Serve metodo, serve contenuto, serve esercizio.
Il corso DPO offerto da Progetto81 si muove in questa direzione. Ottanta ore intense, ma flessibili, perché erogate online in modalità e-learning. Un programma pensato per chi già lavora nel settore pubblico o privato, ma vuole crescere, strutturarsi, certificarsi. Le lezioni coprono ogni aspetto rilevante: dal ruolo del DPO alle nuove tecnologie, passando per l’analisi dei rischi, le valutazioni d’impatto, le responsabilità civili e penali.
Non si tratta solo di leggere slide o superare test: è un percorso che scava, che stimola, che costringe a pensare. E che alla fine, lascia strumenti veri, pronti per essere usati. Perché la formazione, se fatta bene, è il primo investimento che un buon DPO fa su sé stesso.
La preparazione del DPO
Di improvvisato, in questo ruolo, non c’è proprio nulla. Chi pensa che basti una conoscenza base del GDPR e un pò di dimestichezza con le policy aziendali, si sbaglia di grosso. Il Data Protection Officer è un professionista ibrido, mezzo giurista e mezzo informatico, capace di leggere una clausola contrattuale e subito dopo decifrare un log di accesso. Ma non basta saper leggere: occorre saper interpretare, prevedere, consigliare.
Un DPO deve muoversi come un medico di base del dato: sa ascoltare i sintomi di un’infrastruttura, riconosce le patologie normative e prescrive le cure. Con la differenza che, qui, una diagnosi sbagliata può costare cara, in sanzioni, reputazione e fiducia persa. Eppure, il GDPR non impone alcuna certificazione ufficiale per ricoprire questo ruolo. Paradossale? Solo in apparenza.
Quello che davvero conta è la preparazione. E la preparazione, nel mondo reale, arriva attraverso percorsi seri, formativi, che non si limitano a spiegare le leggi ma insegnano a farle convivere dentro i processi aziendali. Serve un percorso completo, capace di fornire conoscenze giuridiche, sensibilità organizzativa e competenze tecniche, tutte insieme.
Un DPO interno o esterno? Questione di equilibri e prospettive
C’è chi affida questo ruolo a una figura interna, già inserita nell’organigramma. E c’è chi preferisce l’occhio esterno di un professionista che arriva da fuori, senza legami, senza retaggi. Entrambe le strade hanno senso. Un DPO interno conosce la casa, sa dove mettere le mani, riconosce le dinamiche informali, ma rischia di perdere lucidità, soprattutto se coinvolto in altri processi decisionali. Un esterno ha la libertà del forestiero e la chiarezza dell’estraneo, ma spesso deve sudare per farsi ascoltare.
La vera differenza, però, la fa il livello di autonomia. Che sia interno o esterno, il DPO deve poter agire senza condizionamenti, riferire direttamente ai vertici, accedere ai dati, ai documenti, alle decisioni. Non è un orpello formale, ma un presidio reale, e come tale va trattato.
Nel concreto, si tratta di una scelta strategica, che va ponderata considerando dimensione, complessità e cultura dell’organizzazione. Ma in ogni caso, è bene ricordare che la qualità della persona conta più della sua collocazione.