«Non gradevole e poco colto»: ecco perché i baresi si sono vergognati del proprio dialetto
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giovedì 19 settembre 2019
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di Marco Montrone e Salvatore Schirone
Ma non è stato sempre così. Dal secondo dopoguerra in poi il dialetto ha subìto una vera e propria guerra da parte di coloro che volevano imporre in tutta la Penisola la lingua italiana. Bisognava “alfabetizzare” e unire un intero popolo e così, prima di tutto a scuola, l’uso del barese fu di fatto vietato.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
«Dagli anni 50 sorse un pregiudizio nei confronti del dialetto, considerato un ostacolo nell’apprendimento dell’italiano – conferma Gigi De Santis, membro dell’Accademia della lingua barese -. I bambini venivano rimproverati dai propri parenti se lo usavano davanti agli estranei e ci si vergognava di parlare una lingua che i più consideravano volgare. E così nel tempo molte parole arcaiche e modi di dire furono dimenticati e la nostra tradizione sì impoverì».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Il processo di “radicale italianizzazione” fu però comune a tutte le regioni e le città della Penisola. Eppure in molti territori non attecchì. Si pensi a Napoli e Roma o al Veneto, alla Sicilia e alla Sardegna. In queste aree il dialetto si continuò tranquillamente a utilizzare, assieme all’italiano. La popolazione difese con amore la propria “parlata”, che ancora oggi viene impiegata persino nel cinema e in televisione.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Perché invece i baresi, contrariamente al resto d’Italia, “nascosero” e dimenticarono la propria lingua? Abbiamo posto questa domanda al dialettologo e linguista barese Giovanni Manzari, autore di numerose pubblicazioni sul vernacolo locale.
Perché i baresi hanno “ripudiato” il proprio dialetto?
Lo scarso prestigio del dialetto barese si basa su due livelli. Il primo è una sorta di “percezione negativa” che il cittadino ha nei confronti del proprio modo di comunicare: “sente” la propria parlata come “brutta”, poco presentabile, fonte d’imbarazzo o di vergogna. Un’idea consolidata dal “pensiero” del resto dell’Italia, che ha sempre considerato l’accento pugliese come sgradevole e incomprensibile o addirittura comico. Del resto il barese non è mai stato associato alla poesia e al teatro, come è invece avvenuto per il napoletano o il veneziano. I due aspetti, interno ed esterno, si sono sempre rafforzati a vicenda.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Ma è proprio così? Il modo di parlare barese è effettivamente “poco presentabile”?
Le vocali delle parlate dell’area di Bari si caratterizzano, in molti contesti, per una serie di dittongazioni (“gallina” in bitontino diventa gaddòine) o comunque alterazioni (si pensi per esempio al gravinese e a vari altri vernacoli, in cui a può suonare come una vocale centrale, per cui “casa” si dice kə́sə, con la prima vocale che ha lo stesso timbro dell’indistinta finale). Tali suoni sono percepiti sia dai parlanti che dai non pugliesi come una sorta di “storpiatura” dell’italiano, poco fini, volgari. Non a caso in diversi dialetti i dittonghi sono regrediti o si stanno estinguendo con le nuove generazioni. Più in generale l’espressività dei baresi, anche nella tonalità, nel ritmo, nella mimica, è percepita come ruvida. il pugliese, soprattutto il popolano verace, quando parla sembra sia adirato: è polemico, indulge volentieri all’urlo, in un modo più secco e asciutto di quanto non faccia ad esempio il napoletano o il siculo. Quest’asprezza comunicativa (che cela in realtà schiettezza e sincerità), risulta poco accattivante e gradevole all’orecchio.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Quindi è solo una questione di “suoni”?
No, ci sono ragioni più profonde, dovute al fatto che la Puglia continua a scontare una sorta di complesso d’inferiorità nei confronti del resto d’Italia. La regione è stata infatti esclusa per lungo tempo dalla “Storia” italiana, che ha interessato più il Tirreno, lo Ionio e l’Appennino, ma non la Puglia. La storia illustre è spesso fiorita altrove, lasciandoci un po’ ai margini. Mentre la maggior parte della Penisola, prima di Roma, parlava dialetti italici, noi nel frattempo eravamo stati colonizzati dagli Iapigi, che parlavano il messapico, lingua di origine balcanica, indoeuropea sì, ma molto diversa dall’osco, dall’umbro, dal latino, dal siculo, dal venetico, tutti fra loro imparentati. E anche la gloriosa “grecità”, che si è imposta in Sicilia, Campania, Calabria, lambendo il Salento e creando Taranto, ha lasciato però fuori Bari e la Puglia settentrionale.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Insomma Bari è sempre stata una città “provinciale”…
Sì. La Puglia è stato il territorio più ricco dell’età normanna e poi sveva, la terra più amata dall’imperatore Federico II, ma la capitale all’epoca era Palermo. La grande letteratura è quindi sbocciata in Sicilia: anche poeti di origine pugliese scrivevano in siciliano. Con gli Angiò il centro nevralgico del regno si spostò definitivamente a Napoli e la Puglia entrò in una decadenza da cui si risollevò, in parte, solo nell’Ottocento, con lo sviluppo dell’industria, del commercio, con la modernità. Ciò è sintomatico del senso pratico pugliese, molto fattivo e poco incline alla poesia e all’astrazione, in piena consonanza con lo spirito mercantile e utilitaristico della nuova civiltà borghese.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Da qui la “poca nobiltà” del dialetto barese…
Il barese, diretto e poco cerimonioso, fa miglior figura quando agisce che quando parla e, quando parla, lo fa per scopi pratici. Ciò, insieme al resto, spiega la povertà della letteratura pugliese, che non è praticamente mai giunta alla ribalta nazionale e ci riporta alla questione di partenza: il pugliese sente il suo mondo, le sue tradizioni, il suo modo di parlare, come qualcosa di intimo, riservato alle situazioni famigliari e amicali, legato a memorie della propria comunità, ma fa fatica a ricollegarlo a una cultura illustre, riconosciuta. Le nostre sono lingue nobili e antiche, conservano elementi di latinità scomparsi in tutto il resto del mondo neolatino (si pensi al crà, pescrà.), ma noi pugliesi tendiamo comunque a vergognarcene, a celarle.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
A differenza di altre zone d’Italia…
Certo. Un napoletano andrà sempre orgoglioso delle splendide canzoni di Di Giacomo e le canterà a squarciagola ovunque nel mondo. Un romano non mancherà mai di ostentare la sua lingua, consacrata da Belli, da Trilussa e da tanta cinematografia. Ma un barese? Ha Francesco Saverio Abbrescia e altri poeti pregevoli, ma pressoché ignoti fuori dal circuito cittadino. Però non si deve pensare solo a una questione di riferimenti eruditi e consapevoli, ma a un sentimento sotterraneo, inconscio, sedimentatosi nei secoli, legato all’esclusione delle nostre plebi contadine dalla storia illustre (si pensi invece alla contigua Lucania, così magistralmente narrata da Carlo Levi).Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Oggi però sembra che qualcosa stia cambiando.
La Puglia va molto “di moda”, è vero, ma è un fenomeno recentissimo. Rimangono tantissime le coppie riluttanti a trasmettere il proprio patrimonio linguistico ai figli. Ma su questo bisognerebbe lavorare: c’è da far capire che il dialetto non serve solo a fare battute più o meno triviali, ma è un sistema linguistico di enorme ricchezza grammaticale e lessicale, da custodire gelosamente e tramandare alle future generazioni.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Foto di Anna Simi
© RIPRODUZIONE RISERVATA Barinedita
I commenti
- roberto - Interessante dissertazione, che condivido. Mi permetto solo di segnalare che spesso vengono usati i termini Puglia e pugliesi in modo inadeguato. Proprio in ordine alla lingua si deve parlare di Dauni , japigi e...Messapi non Pugliesi . Tanto che i Messapi (leccesi) non si vergognano del proprio dialetto (tutt'altro).
- Antonio Leone - Rimane il mio dubbio su certe somiglianze con il franco e anche inglese. L'inglese deriva dal franco antico, portato dai normanni, che invasero la Britannia contemporaneamente alla Puglia e Campania. I dittonghi e la "a" pronunciata "ae" derivano di là, ma la "ae" c'è pure in Emilia (molto) e Veneto (andemo..) senza che lì siano arrivati i normanni. Quindi, forse l'origine è ancora più antica: popolazioni celtiche dei Balcani che invasero la costa adriatica e i "pugliesi" furono chiamati Japigi?
- Luca Maselli - Il rancore linguistico dovrebbe riguardare i Lino Banfi e i Gianni Ciardo di turno che hanno continuato a ridicolarizzare per anni la nostra lingua e sono tanto osannati da un pubblico avvezzo a pernacchie e scorregge... Personaggi che si credono comici inarrivabili e sono solo dei guitti da avanspettacolo ed hanno anche l'ardire di stroncare con giudizi "colti" chi per una vita, come Vito Signorile, ha nobilitato la nostra lingua in una ricerca che ancora oggi continua indefessa anche nel ricercare le affabulazioni di una volta... Pregiudizi che affondano le radici anche nei secoli passati come il Marra che giudicava i Diurnali dello Spinelli scritti nella lingua "veramente ridicula" di quel popolo, come se per noi non sia ridicolo similmente il lombardo di un Salvini od il veneto di Zaia o il romanesco della Meloni...ovviamente anche per ciò che dicono. Ma il dialetto deve rimanere come il nostro genius loci linguistico e non come orgoglio di appartenenza. Basta coi gretti nazionalismi o il mio bucato è più bianco del tuo... Quanto mi piacerebbe sentire un giorno un bimbo ex cinese o ex di un qualsiasi cosa che dica: "Quand' jè bboun' la f'cazz'". O riscopra parole com:"Ambrué, Vatregn', f'rnsaun'..." e sentirsi ugualmente cittadino del mondo
- Gigi - Impeccabile l’analisi sociolinguisica di Giovanni, ma riguardo alla parte storica c’è da aggiungere che Bari è stata sede del catapanato bizantino prima dei normanni, cioè la capitale del mondo bizantino nell’occidente. In seguito, c’è il periodo di splendore della città durante gli Sforza, che ha preceduto il periodo bisecolare di declino causato dal vicereame spagnolo. Poi, si dice Federico II non aveva per niente in simpatia i baresi, visto che avevano voltato le spalle a bizantini, prima, e a normanni, dopo.
- Emanuele Zambetta - Sono classe 1981 e mi ritengo fortunato perché fin da piccolo, dove "mi voltavo e mi giravo", ascoltavo parlare il dialetto barese: partendo dalla maestra elementare della Carlo Del Prete e da familiari e parenti, passando per gli anziani che giocavano a carte nel giardinetto della chiesa russa e i mercanti di via Monte Grappa, arrivando ai frequentatori di n-dèrr'a la lanze e agli abitanti del canalone in zona Torre Tresca ai tempi delle stalle di vacche qua e là. Si è parlato di complessi di inferiorità. Sono d'accordo. Ma chi oggigiorno ha gli attributi, li esca, produca opere letterarie e si proponga all'Italia intera. Direi sia giunta l'ora di lottare affinché questo accada. Cerchiamo di tornare stabilmente alla qualità degli scritti degli autori classici nostrani e facciamoci conoscere a livello nazionale. Baresi, scrivete in dialetto e fatevi valere! Occorrono i fatti! Gli amanti del nostro idioma, uniti per un unico scopo!
- Marco - Mi è piaciuta molto questa analisi. Parlo da ventenne: Bari l'ho sempre sentita emarginata a livello culturale, ed è triste soprattutto per un giovane che vuole fare l'artista e portare alta la bandiera della sua città. Anche nell'epoca moderna, nonostate sia la terza città più popolosa del Sud, non è stata in grado di rivalutarsi. La comicità poi, è vero ha portato Bari sotto i riflettori, ma dall'altra parte ha fatto si che il barese venga spesso associato al simpaticone di turno o al personaggio poco serio, insomma una specie di "macchietta".
- vito petino - LAGRM D’AMMOR (traduzione in calce) Ijnd a Bar Vecch, o vic Stritt, stev Sisin d l rcchij-tedd, che iavtav a nu s-ttan alla strat c’u marit e l’un-ca figghij, Chiarin che tutt chiamavn Ririn. Sisin fadgav p cambà la famigghij. Ass-dut alla segg mbastav, arrzzuav, tagghiav e strascnav cu disc-t sop o tavlir la mass p l rcchij-tedd. ‘Na matin la sgnor d drmbett avvsò tutt chidd che scevn a cattà l rcchij-tedd. “Sisin sta malat.” Ririn, no n’zapev fa u mstir d la mamm. “La pccnenn iè pccnonn, ava pnzà angor a sci a la scol p mbarars nu mstir a daver. Alla fin du uann pigghij la lcenza medij, po’ s ved. Cu mstir mi’ mang-n l’ald e nu mrim di fam. Na dì sì na dì no, pass cudd minz rcchion tutt’appofumat e allsciat e disc ca Marì, Iannin, Nicolett e chedd’ald abbasc a l’ambasciat l fascn cchiù mrcat l rcchij-tedd. Indand, sop a la fatica nost s’è fatt cing furgun e venn l rcchij-tedd nost a tutt l panifigg, l salumir, e l supermrcat d Bar nev. E no mptim fa nudd, che c non vnnim a ijdd, no n’z pot cambà da chidd’e picch sgnur ca ven-n drettamend dò a cattà l rcchij-tedd”, dcev Sisin. U marit ievn iann che stev accppnat ind’o litt dopp a ‘na brutta cadut sop o candir; e scevn nnanz asslut ch cudd e picch che assev da l rcchij-tedd. Passò nu mes ca Sisin stev malat. All du mis f-rnern pur l trris che tnevn da part. La mamm dcì chiangenn a Ririn: “Figghia me, ij non vogghij che ada lassà la scol. Vdmin c p qualche timb, pomerigg pomerigg, t’ambar tu, po’ s ved c Crist m fasc alzà da ijnd o litt.” “Mamm, non d sì proccupann. Pinz a sta bbon. S-nnò alla scol non c voggh chiù e m’ambargh a fa l rcchij-tedd”, dcì Ririn cu dlor ijnd o cor, senz a fauw’a vvdè. Ma Sisin non z’alzò. Ririn lassò la scol. Alla megghij avev mbarat a fa l ricchij-tedd. E ch la fatica dlla pccnenn cambavn tutt’e tre p no mrì. La matin s’alzav alle quatt, s lavav, s vstev e mbstav la mass p mettl a cresc. E mendr la mass crscev, cangiav, lavav e vstev la mamm. Po’ facev u stess cu uattan. D trris p l mdcin ng n vlevn assà. E assdut alla segg, s mttev daffor, nanz alla port p ptè s-ndì e vdè meggh c l genitur avevn abbsogn d qualche cos. Subbt accmnzav a mbastà la massa crsciut, la stennev, la tagghiav a strisc, ogn’e strisc l’arrzzuav quann o mignuw, cu crtidd staccav nu stezzaridd e cu disc-t u strascina sop o tavlir. Aqquann l rcchij-tedd ng parevn nu chil, l stennev sobb’a la retin p fall assquà. E accsì, ogni vold che vedev la msura giust, l mttev ind a na bust e la bust ind a nu carton o quest.. A menzadì aveva agnut u carton. Scev ijnd alla cas e cmnzav a prparà da mangià a tutt’e tre. Chnzat la tauw, mangiavn, schnzav e lavav l piatt. O pomerigg aggnev n’ald carton d rcchij-tedd sin alla ser. Nu picch d televisione, e po’ scev a ddorm stanga mort. E chsì p tutt la s-man. Alla dmench pnzav asslut alla mamm e o uattan. U timb d sci a mess e subbt fscev a ccas. La stessa musch p tutt u mes. E p tutt l mis e tutt l’ann. Oramà Ririn avev addvndat na bella uagnedd d sidc’ann. ‘Na vera bllezz ch l capidd gnor gnor, ijecch azzurr. La facc accom a na set. L man bell lisc, l disc-t long e l gamm long long. Parev che ijnd’a tutt chidd’ann avev fatt la cur d bllezz ch l’acquw, farin e rcchij-tedd. La fatich assà però la s-ndev. Ma la cos che la facev dvndà trist iev a quann vdev l chmbagn so’, che prim passavn qualche ijor a disc chiacchijr ch ijedd daffor la ser, sobrattutt d’estat, scirasinn in giro sott’o vrazz du prim zit. S n scev a ddorm prim e ijnd o litt chiangev citta citt. La mamm la s-ndev u stess. “Ci ijè, Ririn, alla mamma toij? No nd sind bbon?” “No, mamm. Statt tranquill. Ijè che so mangiat tropp diauicch.” ‘Na nott ca facev fridd assà, sott all chvert s sfuò. “C pccat so fatt, Crist mi. Prcè non bozz fa la stessa vit dll chmbagn me’. La stessa vit che ijann fatt mamm e papà quann ievn giuvn.” E chsì tutt l nott. S stev sott a Natal, quann all lamind su’ rspnnì na voscia dolgia dolgia. “Lagrm amar chiammn ammor. Mbast e chiangg ch tutt u cor e sorta bbon t’ava riesc. A nsciun u’ada disc o sorta gnor po t’allisc.” S’acchiamndò atturn atturn. Ma a chedd’or d nott ijnd alla stanzetta so’ no ng stev nsciun. Pnzò che tra veglij e suunn avev sgnat. L ser dopp arrptì la candilen ma senza chiang. Non zindì cchiù la vosc. La nott d Natal, dopp avè passat la nasct d Gsù Bambin nzim alla mamm e o uattann, s n sci a ddorm. Appen chrcuat ijnd o litt, vdì appggiat sop alla spallir du litt na fgur pccnonn dvndà grann quann a ijedd, ch tanda luscia atturn comm c iev dì, che ng parlò comm alla prima vold. “Lagrm amar chiammn ammor. Mbast e chiangg ch tutt u cor e sorta bbon t’ava riesc. A nsciun u’ada disc o sorta gnor po t’allisc”, e addvndò arret pccnonn, s st-tò e sparscì. Da cudd m-mend non la s-ndì né la vdì cchiù. “La Fat dlla cas”, pnzò. “C’avev vlut disc ch chidd parol”, s’addmannav. Ma no n parlò ch nsciun, probrij accom ng’avev ditt la Fat d fa’. Dopp l fest rpgghiò la solda vit. ‘Na matin che u fridd iev assà, s’alzò a fatich. Chmnzò a mbastà e ng vnì da chiang pnzann alla sorta so’. L lagrm bagnorn la farin e senz che Ririn facev nudd, neppur a mmov l man, la farin dvndò subt mass. Mangh o ccald la mttì che già iev crsciut, stnnut, tagghiat, arrzzuat, strascnat senza disc-t e ass-cuat. Ririn mettev asslut l rcchij-tedd ijnd all bust e po’ ijnd o carton. Sol chedda matin aggnì desc cartun. U pomerigg ptì assì nu picch, mendr l genitur drmevn. La matin che vnì u minz rcchion a rtrà l cartun no l vlì prcè ievn assà. Ch la sanda pacienz Ririn mttì nu poch d bust ijnd a na vorz e l prtò a salumir e panifigg atturn alla cas dannl a metà prizz. La dia dopp no mbastò. Tnev la casa chien d rcchij-tedd. Stev p prparà la vorz chien d rcchij-tedd, quann tre uaggnun d l panifigg e du’ d l salumir s prsndorn alla port. “Ririn, ha ditt u patrun c ng vinn tutt l rcchij-tedd ca tin.” S spargì la vosc ca l rcchij-tedd di Ririn, non zol ievn l chiù mrcat, ma pur l chiù bbon. E subbt nnanz alla cas acchrrern femmn d cas e iummn d ristorand che vlevn chidd rcchij-tedd. Senz’aggiung nudd d cchiù, sol calannl ijnd all’acqua bollend, c dcev che sapevn di ragù alla carn, ci d fungtidd, ci d cm d rap, ci d frmagg e ci d pesc frisc-ch. Ogne d’un s-ndev u gust che cchiù ng piacev. Pur ijnd alla stessa cas, chccnat ijnd o stess tian, l rcchij-tedd d Ririn avevn u amor che ogne d’un dsdrav. Ririn oramà s’alzav soldand p cchiang sop a la farin, u rest vnev da sul. E cchiù rcchij-tedd vnnev e cchiù Ririn s facev chiù berafatt. E ij n parlch a te, tu all’ald, la vosc arrvò all recchij du figgh du re dlla past. Vnì appost a Bbar p canosc a Ririn. Appen s vdern fu ammor flmnand. U figgh du re dlla past, nu bell giovn pur ijdd, s la prtò nzim alla mamm e o uattan o pais su’. Tnev la famiggh d ijdd na villa ca non frnev ma’, ch tanda cammarir e atturn nu giardin grann grann. S spsorn. Ririn non avì chiù bsogn di chiang. L genitur stevn megghij, srvit e rverit. L rcchij-tedd s facevn arret comm’a na vold. E tutt sim flisc e chndind … (vitopetino) LACRIME D’AMORE Nella città di Bari Vecchia, al vico Stretto, stava Sisina delle orecchiette, che abitava in un locale alla strada col marito e l’unica figlia, Chiarina che tutti chiamavano Ririna. Sisina lavorava per far campare la famiglia. Seduta alla sedia, impastava, arrotolava, tagliava e strascicava col dito sopra il tavoliere la massa per le orecchiette. Una mattina la signora dirimpetto avvisò tutti quelli che andavano a comprare orecchiette. “Sisina è ammalata.” Ririna, la figlia di Sisina, non sapeva fare il mestiere della madre. “La bambina è piccola, deve pensare ancora ad andare a scuola per imparare un mestiere vero. Al fine anno prende la licenza media, poi si vede. Col mio mestiere mangiano gli altri e noi moriamo di fame. Passa, a giorni alterni, quel mezzo femminiello tutto profumato e allisciato e dice che Maria, Annina, Nicoletta e quell’altra giù all’ambasciata le fanno a un prezzo più economico le orecchiette. Intanto, sulla fatica nostra s’è fatto cinque furgoni e vende le orecchiette a tutti i panifici, i salumieri e i supermercati di Bari Nuova. E non possiamo fare niente, ché se non vendiamo a lui, non si può campare dai pochi signori che vengono direttamente qua a comprare orecchiette”, diceva Sisina. Il marito erano anni che stava storpio nel letto dopo una brutta caduta sul cantiere; e andavano avanti solo con quel poco che usciva dalle orecchiette. Passò un mese che Sisina stava ammalata. Ai due mesi finirono anche i soldi che tenevano da parte. La mamma le disse piangendo: “Figlia mia, io non voglio che devi lasciare la scuola. Vediamo se per qualche tempo, pomeriggio pomeriggio, impari tu, poi si vede se Cristo mi fa alzare da dentro al letto.” “Mamma, non ti devi preoccupare. Pensa a guarire. Sennò a scuola non ci vado più e imparo a fare le orecchiette”, disse Ririna col dolore dentro al cuore, senza farlo vedere. Ma Sisina non si alzò. Ririna lasciò la scuola. Alla meglio aveva imparato a fare le orecchiette. E col lavoro della bambina campavano tutt’e tre per non morire. La mattina si alzava alle quattro, si lavava, si vestiva e impastava la massa per metterla a crescere. E mentre la massa cresceva,, cambiava, lavava e vestiva la mamma. Poi faceva lo stesso col padre. Di soldi per le medicine ce ne volevano assai. E seduta alla sedia, si metteva fuori, davanti alla porta per poter sentire e vedere meglio se i genitori avevano bisogno di qualche cosa. Subito cominciava a impastare la massa cresciuta, la stendeva, la tagliava a strisce, ogni striscia l’arrotolava quanto al mignolo, col coltello staccava un pezzettino e col dito lo strascicava sul tavoliere. Quando le orecchiette le parevano un chilo, le stendeva sopra alla retina per farle asciugare, e così ogni volta che vedeva la misura giusta. Prima di mezzogiorno le metteva dentro la busta, e la busta dentro al cartone a lato. A mezzogiorno aveva riempito il cartone. Andava dentro casa e cominciava a preparare da mangiare a tutti e tre. Ordinata la tavola, mangiavano, disfaceva (la tavola) e lavava i piatti. Nel pomeriggio riempiva un altro cartone di orecchiette sino a sera. Un po’ di televisione, e poi andava a dormire stanca morta. E così per tutta la settimana. La domenica pensava solo alla madre e al padre. Il tempo di andare a messa e subito correva a casa. La stessa musica per tutto il mese. E per tutti o mesi e tutti gli anni. Ormai Ririna era diventata una bella ragazza di sedici anni. Una vera bellezza con i capelli neri neri, occhi azzurri. La faccia come la seta. Le mani belle lisce, le dita lunghe e le gambe lunghe lunghe. Sembrava che in tutti quegli anni avesse fatto la cura di bellezza con l’acqua, farina e orecchiette. La molta fatica però la sentiva. Ma la cosa che la faceva diventare triste era quando vedeva le compagne sue, che prima passavano qualche ora a dire chiacchiere con lei fuori la sera, soprattutto d’estate, andarsene in giro sotto il braccio del primo fidanzatino. Se ne andava a dormire prima e dentro al letto piangeva zitta zitta. La mamma la sentiva lo stesso. “Che cos’è, Ririna, alla mamma tua? Non ti senti bene?” “No, mamma. Statti tranquilla. È che ho mangiato troppo peperoncino.” Una notte che faceva troppo freddo, sotto le coperte si sfogò. “Che peccato ho fatto, Cristo mio. Perché non posso fare la stessa vira delle compagne mie, La stessa vita che hanno fatto mamma e papà quando erano giovani.” E così tutte le notti. Si stava sotto Natale, quando ai lamenti suoi rispose una voce dolce dolce. “Lacrime amare chiamano amore. Impasta e piangi con tutto il cuore e sorte buona ti deve riuscire. A nessuno lo devi dire o sorte nera poi ti alliscia.” Si guardò attorno attorno. Ma a quell’ora di notte nella stanza sua non c’era nessuno. Pensò che tra veglia e sonno avesse sognato. Le sere dopo ripeté la cantilena ma senza piangere. Non sentì più la voce. La notte di Natale, dopo aver trascorso la nascita di Gesù Bambino insieme alla mamma e al padre, se ne andò a dormire. Appena coricata nel letto, vide appoggiata alla spalliera del letto una figura piccolina diventare grande quanto lei, con tanta luce intorno come se fosse giorno, che le parlò come la prima volta. “Lacrime amare chiamano amore. Impasta e piangi con tutto il cuore e sorte buona ti deve riuscire. A nessuno lo devi dire o sorte nera poi ti alliscia”, e diventò di nuovo piccolina, si spense e sparì. Da quel momento non la sentì nè la vide più. “La Fata della casa”, pensò. “Che aveva voluto dire con quelle parole”, si domandava. Ma non ne parlò con nessuno, proprio come le aveva detto la Fata di fare. Dopo le feste ripigliò la solita vita. Una mattina che il freddo era tanto, si alzò a fatica. Cominciò a impastare e le venne da piangere pensando alla sorte sua. Le lacrime bagnarono la farina, e senza che Ririna facesse niente, nemmeno muovere le mani, la farina diventò subito massa. Manco al caldo la mise che già era cresciuta, stesa, tagliata, arrotolala, strascinata senza dito e asciugata. Ririna metteva soltanto le orecchiette nelle buste e poi nel cartone. Solo quella mattina riempì dieci cartoni. Il pomeriggio poté uscire un poco, mentre i genitori dormivano. La mattina che venne il mezzo femminiello a ritirare i cartoni non li volle perché erano troppi. Con la santa pazienza Ririna mise un po’ di buste dentro una borsa e le portò a salumieri e panifici attorno a casa dandole a metà prezzo. Il giorno dopo non impastò. Aveva la casa piena di orecchiette. Stava per preparare la borsa piena di orecchiette, quando tre ragazzi di panifici e due di salumieri si presentarono alla porta. “Ririna, ha detto il padrone se gli vendi tutte le orecchiette che hai.” Si sparse la voce che le orecchiette di Ririna, non solo erano più economiche, ma anche più buone. E subito davanti alla casa accorsero donne di casa e uomini di ristoranti che volevano quelle orecchiette. Senza aggiungere nulla di più, solo calandole dentro l’acqua bollente, chi diceva che sapevano di ragù alla carne, chi di funghetti, chi di cime di rape, chi di formaggio e chi di pesce fresco. Ognuno sentiva il gusto che più gli piaceva. Pure dentro la stessa casa, cucinate nello stesso tegame, le orecchiette di Ririna avevano il sapore che ognuno desiderava. Ririna ormai s’alzava soltanto per piangere sulla farina, il resto veniva da solo. E più orecchiette vendeva e più Ririna si faceva più bella. E io ne parlo a te, tu ad altri, la voce arrivò alle orecchie del figlio del re della pasta. Venne apposta a Bari per conoscere Ririna. Appena si videro fu amore fulminante. Il figlio del re della pasta, un bel giovane pure lui, se la portò insieme alla madre e al padre al paese suo. Teneva la famiglia di lui una villa che non finiva mai, con tanti camerieri e intorno un giardino grandissimo. Si sposarono. Ririna non ebbe più bisogno di piangere. I genitori stavano meglio, serviti e riveriti. Le orecchiette si facevano di nuovo come una volta. E tutti siamo felici e contenti. Vito Petino via A. Favia 1 – 70124 Bari (3356288548 lalivip@libero.it
- Mino - Da anni, nel sottobosco, c'è chi produce in vernacolo barese non volgare, storie, poesie e canzoni ma il "monopolio" di una certa schiera culturale , ha oscurato per motivi solo di interesse questi lavori perché non appartenenti alla propria cerchia divulgativa. Ma oggi forse qualcosa sta cambiando.