di Giancarlo Liuzzi - foto Antonio Caradonna, Christian Lisco

I sopravvissuti "calafatàre" di Bari: «Ripariamo sul mare i vecchi e colorati gozzi in legno»
BARI – In città non li costruisce più nessuno e quelli rimasti sono “anziani” e continuamente desiderosi di attenzioni e cure. Sono i gozzi (lanze in dialetto barese) le colorate barchette in legno e a remi utilizzati dai pescatori notturni (i varcheceddàre) per cacciare quelle prede che si trovano vicino alla costa, come polpi, pesce da zuppa (“ciambotto”) e pesce bianco di taglia piccola quali saraghetti e fragolini.

Da sempre c’è chi è preposto alla loro riparazione: è il calafatàre (il calafato), colui che si occupa appunto della tecnica di impermeabilizzazione dei natanti. Il nome deriva dal greco bizantino καλαϕατέω o dall’arabo qalfaṭ: termini che hanno entrambi il significato di “riscaldare”, proprio in riferimento all’utilizzo del catrame caldo necessario per rendere stagne le giunzioni.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

A Bari sono però sopravvissuti pochissimi artigiani specializzati in quest’arte, anche perché ormai il gozzo sta tendendo a scomparire dal mare cittadino, sostituito dalla più leggera e pratica imbarcazione in vetroresina.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Per scovare due “calafatari” all’opera sul mare siamo dovuti andare direttamente nel Porto, in quella “città nella città” che dal 1855 accoglie il traffico navale. Qui, a ridosso del molo Pizzoli, su una piccola banchina, si trovano infatti alcune lanze a riva con lo scafo scorticato poggiate su delle casse di Peroni. (Vedi foto galleria)

Incontriamo così l’anziano Luigi, un signore dai capelli bianchi intento a riverniciare con il classico colore azzurro la chiglia. Questa è infatti la parte della barca che, a causa della pressione continua delle onde del mare, richiede maggiori interventi.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

E poi conosciamo il 50enne Francesco De Marzo mentre è intento a incastrare un pezzo di legno sagomato tra le altre assi dello scafo. «Ho imparato questo mestiere quando avevo circa nove anni dal cugino di mio padre che lavorava al molo Sant’Antonio», ci racconta.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Per secoli infatti i cantieri a cielo aperto di questa storica attività erano N-dèrr'a la lanze (il molo San Nicola) e la dirimpettaia banchina del Molo Sant’Antonio: ovvero il porto vecchio di Bari. «Fino agli anni 80 lì c’erano anche sei professionisti in grado di costruire un gozzo – ci rivela Francesco, pure lui un tempo maestro d’ascia -, oggi però in città non lo fa più nessuno».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)


Attorno a lui notiamo una serie di attrezzi: ascia, martello, un trapano manuale e una serie di punzoni in ferro. «Quelli dalla punta più larga e piatta servono per inserire la canapa o la stoppa tra le sconnessioni delle assi, quello più piccolo invece per spingere le teste dei chiodi all’interno del legno», ci illustra l’artigiano.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

La barca su cui sta lavorando è stata interamente creata da lui quarant’anni fa, ma la chiglia ha subito un attacco di vermi e deve quindi essere sostituita.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

«Questa parte è fatta con materialo duri e resistenti come la quercia o il larice - dice – mentre il faggio o il pino, essendo più porosi, vengono usati per la parte che non va in mare».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Per realizzare invece la curvatura dello scafo si parte dalle assi, larghe dai 15 ai 20 centimetri, che vengono prima immerse nell’acqua e poi passate su una fiamma per renderle più flessibili. A questo punto sono piegate direttamente a mano, anche se bisogna stare attenti a non spezzarle: può capitare se si fa troppa forza o se il legno non è di buona qualità.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

«Prima lavoravo in una segheria in via Crispi – ci racconta De Marzo -. E tagliavo direttamente lì i pezzi avendo a disposizione sia i macchinari che una grande tipologia di legni pregiati. Adesso molte segherie hanno chiuso ed è complesso incontrare chi fa ancora componenti su misura».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Nel frattempo lo osserviamo intento a trovare l’esatta posizione della nuova parte sagomata che andrà a sostituire quella mancante. «Una volta scovato l’incastro esatto va fissata all’ossatura del natante con dei perni, poi si può procedere a rendere stagno tutto lo scafo e riverniciarlo», ci spiega.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Un lavoro certosino il cui minimo errore può comportare la mancata impermeabilizzazione e compromettere la stabilità stessa della barca. Del resto un tempo ci volevano otto anni di apprendistato per diventare maestro calafato. Un antico mestiere che resiste ancora, ma destinato un giorno a scomparire per sempre, assieme a quelle pittoresche lanze simbolo della “Bari di mare”.

(Vedi galleria fotografica)


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