di Mina Barcone

Varvecole, Pacchianèdde, Marange: c'erano una volta le maschere di Carnevale baresi
BARI – C’era Varvecole che regalava confetti alle ragazze, il Cacciatòre che “sparava” a tutti i passanti, la “cafoncella” Pacchianèdde e poi ancora Marange, Cole e Don Scìirsce. Perché sì, il capoluogo pugliese non ha mai potuto vantare un Arlecchino, un Pulcinella o un Farinella, ma in passato ha avuto le sue “maschere”: personaggi della tradizione, ognuno con un suo tratto distintivo, il cui abbigliamento veniva preso in prestito dai baresi durante i festosi giorni del Carnevale.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Maschere che però non sono riuscite a resistere al passare del tempo: i loro nomi oggi sono stati dimenticati e di esse si hanno pochissime informazioni.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

«Furono un simbolo della città soprattutto nell’800 e sino ai primi anni del 900, ma poi piano scomparvero – spiega l’esperto di tradizioni baresi Gigi De Santis –. Tanto che per alcune di esse, come Don Scìirsce e Cole, non si hanno notizie e di tutte le altre si è riuscito a ottenere qualche descrizione solo grazie a scrittori di cento anni fa. Come il demologo e poeta barese Antonio Nitti di Vito, che scrisse a riguardo, negli anni venti del 900, un interessante articolo sull’allora Gazzetta di Puglia». 

E così abbiamo appreso che la tenuta di Varvecole (il cui nome doveva essere “Barbacolà”, poi storpiato in dialetto) era semplice e modesta e consisteva in un largo cappotto felpato con maniche e cappuccio, una mascherina sul volto e una piccola sacca che pendeva sul petto con al suo interno una gran quantità di confetti.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

«Venivano dispensati senza parsimonia alle fanciulle - sottolinea De Santis -. In molti approfittavano di questa maschera per regalare, senza imbarazzo, un dolce pensiero alle ragazze».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Lo speciale fucile dalla lunga canna ripiena di crusca era invece il tratto distintivo del Cacciatòre, che a differenza di Varvecole non donava nulla, ma al contrario pretendeva sempre qualcosa. «Se trovava un conoscente - spiega l’esperto - lo prendeva di mira e, soffiando nella canna, gli scaricava addosso l’innocua fucilata, invitandolo poi nella tabaccheria più vicina per farsi offrire sigari».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

La Pacchianèdde rappresentava l’unico personaggio femminile. Era una “cafoncella”, una contadinotta, e indossava il grembiule sulla larga gonna, uno scialle sulle spalle e i capelli raccolti all’interno di un fazzoletto sulla nuca. Munita di cestino di solito andava in coppia con un giovane vestito da marinaio.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)



Foto di Gigi De Santis donatagli dalla signora Maricarla

Il volto color zafferano, l’abito possibilmente sui toni del giallo e due arance strette tra le mani erano infine gli immancabili ingredienti per travestirsi da Marange, letteralmente “Arancia”, il quale era solito sbarrare la strada ai passanti per fissarli negli occhi restando immobile. 

«C’è chi poi continua ad affermare che Marchòffie sia stata una maschera di Bari – dichiara De Santis –, ma è un falso. Si trattava di un personaggio inventato dal poeta ottocentesco Francesco Saverio Abbrescia ma i cui tratti non furono mai presi in prestito dai baresi. Tra l’altro non è nemmeno vero che portasse al seguito la pastorale come San Nicola. Al contrario si trattava di un contadino semplice e sciocco con lunga giacca bianca e rossa a maniche larghe e pantaloni alla zuava».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Maschere che sfilavano accanto ai carri allegorici, per decenni protagonisti del Carnevale. I primi si videro per le strade della città nel 1855, suscitando non poco interesse e ammirazione. «Il pioniere fu il Barone Ferrara, che ne realizzò uno a grandi arcate e tutto ricoperto d’edera – ricorda l’esperto– . Pacchianèdde, Varvecole, Cacciatòre e Marange procedevano assieme ai carri e così a Bari, con queste maschere “alla buona”,  si passavano gli ultimi giorni di Carnevale fino a quando non arrivava il momento di fare il “funerale a Rocco”».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

La precuatùre de Rocche si svolgeva a Bari Vecchia l’ultimo giorno di festa: il Martedì Grasso. Veniva messa in scena la morte di un pupazzo di paglia che veniva bruciato su un falò dopo essere stato portato in processione. Fu celebrata regolarmente fino agli anni 30/40 del 900, per poi pian piano perdere d’interesse e infine scomparire del tutto, restando solo nei ricordi degli anziani baresi.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Foto di copertina di Gigi De Santis (Don Dialetto)


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Mina Barcone
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  • Vito Petino - MASCHERE BARESI POCO NOTE IN ITALIA Noi baresi puristi scriviamo proprio come parliamo. Semplificando, ecco alcuni nomi del Carnevale barese, Varvcol, Cacciator, Pacchianedd, Marang, Marcoffij. Altre scritture, spacciate per barese scritto, corrispondono alle province limitrofe. Inoltre l'appena citato Rocco, in Barinedita giornale online, per noi ragazzi anni 50 ha una storia più nitida. Tale era il cafone di campagna barese (io ne ho avuto uno in famiglia, marito di una mia cugina, e proprio Rocco di nome, contadino con fondo agreste fra Stadio della Vittoria e San Francesco alla Rena) e la sera dell'ultimo giorno di carnevale, martedì grasso appunto, si faceva il funerale a un fantoccio simile (vedere le due foto su FB, nel gruppo "Barinedita, agape dei baresi), intonando il canto funebre, tra le finte lacrime dei presenti, risa e lazzi boccacceschi, "Iè muert Rocch. Rocch iè muert. E mò ci ava chiandà la bastnach, la bastnach addò l'ava mett?" E così sino al rogo finale in uno spiazzo periferico, attorniato da tantissimi abitanti del quartiere, soprattutto ragazzini con genitori. Esperienza annuale da me direttamente vissuta dalla nascita e sino ai 9 anni in via Carulli dove abitavamo, e dai 10 ai 15 anni a Japigia dove ci trasferimmo. Le sue sembianze non sono quelle di un barbone, ma di un lavoratore della terra povero e sfruttato dai mediatori ortofrutticoli, che compravano i prodotti delle sue fatiche a un soldo, e li rivendevano ai mercati generali a 10, per poi farli arrivare sulle nostre tavole a 20, fra grossisti e fruttivendoli al minuto. Il piatto unico di maccheroni accompagnato da un fiasco di vino era il suo pasto quotidiano (nella seconda foto del 31 ottobre 1985 mia cugina Felicetta con il marito Rocco, baffoni alla Ceccobeppe e figli; accanto alla sposa mio cugino Michelino, fratello di Felicetta, entrambi figli di zio Giovanni e zia Caterina, sorella maggiore di mia madre; da allora non li ho più visti) ❤👍❤...
  • angelo di marzo - Mi fa sempre molto piacere leggere i vs articoli sulla città dove sono nato e vissuto sino ai 18 anni, apprendendo dai miei genitori, quasi sempre barese-speaking, tutto il dialetto, che conosco molto bene, pur senza averlo mai parlato. Un dettaglio: l'autore scrive 'Pacchianedde'. eppure la 'e' finale nel linguaggio corrente non si ascolta, perché la parola finisce in 'd' rafforzata; chiedo se a vs parere è corretto aggiungere una 'e' finale. Grazie, un cordiale saluto.
  • Sebastiano Gernone - LA PROCESSIONE CON FALO' DI ROCCO ANCORA NEGLI ANNI '60 AVVENIVA NELL'ORATORIO DEL REDENTORE
  • Donato Romano - Nato nel 1950 ho abitato in via S. Francesco d'Assisi 34 e ho seguito e preso parte al funerale di Rocco che veniva dalla parte di P.zza Massari con un fantoccio di paglia su una " bicicletta larga" a tre ruote, girava attorno al "Giardino Garibaldi" per essere incendiato alla fine della via S. Francesco. Noi bambini venivamo vestiti con abiti vecchi di adulti e truccati col nerofumo ottenuto dall'accendere di fiammiferi sotto una tazzina bianca di caffè. Il '56 sono andato via.


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