di Cassandra Capriati

Modugno, l'ex mobilificio Aiazzone: da capannone morto a paradiso dei writers
BARI -   A vederlo mentre si passa lungo la strada provinciale 231, nel tratto che collega Modugno a Bitonto, l’ex mobilificio Aiazzone sembra semplicemente l’ennesima, seppur enorme, fabbrica abbandonata. Ma se si ha la curiosità di entrare in quei capannoni ormai svuotati, ci si accorge come questo edificio ha acquistato nel tempo una seconda vita, diventando una sorta di “paradiso” di writers e street artist, che con i loro graffiti e disegni hanno colorato e trasformato questo luogo triste e desolato.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Nell’immaginario collettivo Aiazzone è ancora ricordato per il suo celebre motto che spopolava negli anni 80 “Aiazzone, provare per credere”, pronunciato fino alla nausea da Guido Angeli, testimonial dell’azienda. Allora il mobilificio era il leader indiscusso nel campo dell’arredamento. Poi in seguito alla morte del suo fondatore Giorgio Aiazzone, avvenuta nel 1986, il mobilificio subì una grossa battuta d’arresto. Nel 2008 venne rilevato da una nuova società e ritornò in attività, tuttavia da marzo 2011 tutte le filiali vennero improvvisamente chiuse per inventario “sino a nuova comunicazione”. Un’anticamera del fallimento che puntualmente fu annunciato poco dopo.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

E’ quindi dal marzo di quattro anni fa che i due grandi capannoni situati sulla statale 231 sono chiusi e abbandonati a se stessi. E noi siamo andati a visitarli. (Vedi foto galleria)

Individuiamo facilmente l’immenso stabilimento che nonostante il giallo un po’ sbiadito dal tempo, si distingue grazie al pilastro blu su cui ancora svetta l’insegna che riporta in enormi caratteri gialli il nome dell’azienda. I due capannoni (uno per l’esposizione e l’altro per il deposito merci) sono completamente aperti: non vi sono più porte, né serrande a fare da barriera ai numerosi ingressi, sopravvive giusto qualche saracinesca ancora abbassata.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Entriamo prima nel capannone espositivo, il più grande, con pianta rettangolare, che era occupato per tre quarti dal vecchio mobilificio e in una piccola parte dal rivenditore di elettronica Unieuro, come si evince dalle lettere blu scrostate ormai dalle pareti.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

L’interno si articola tra diverse stanze dalle dimensioni variabili, quasi tutte collegate tra loro. Ciò che appare subito chiaro è che è stato rubato tutto ciò che forse era rimasto, persino il metallo. Porte, cavi elettrici, non c’è più niente. L’edificio sembra sia stato sventrato da cima a fondo: grosse tubature argento pendono in modo desolante dal soffitto, le mattonelle sono staccate a decine dalla volta, sul pavimento invece un confuso ammasso di legno, pezzi di cartongesso, calcinacci, tubi e vetri.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Sul fondo della prima stanza scopriamo che qualcuno è già stato qui prima di noi: dei graffiti infatti hanno coperto le candide pareti, che con i vecchi cartelloni pubblicitari rimasti danno un tocco di colore all'ambiente e rendono meno desolante questo ampio stanzone ricoperto ormai di macerie. Avanziamo ancora e nel secondo vano i pannelli che ricoprivano presumibilmente la volta sono tutti sul pavimento, costituendo quasi una sorta di tappeto di cartongesso. Dal soffitto in legno pendono invece una gran serie di fili colorati, che sembrano quasi tanti piccoli nastri.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Al lato della stanza si trova un pezzo di un divano sventrato, sopra i segni neri delle zampette lasciati da qualche cagnolino di passaggio. A fianco, tra escrementi di piccioni e piccoli vetri, c’è una solitaria scarpetta da sera beige, persa forse da una moderna Cenerentola dopo una folle nottata o più probabilmente da una prostituta.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Entriamo poi in un ambiente più piccolo, dove al centro della stanza si trova lo scheletro di una struttura di metallo. Sotto di essa i segni dei resti di un piccolo falò improvvisato, probabilmente da uno dei tanti writers che sembrano popolare questa cattedrale nel deserto. Infatti sulla parete di fronte appare la tag rossa fiammante del writer “Skolp” che incontreremo tante altre volte lungo il nostro giro nel capannone. Sotto, in piccolo, la firma della sua crew “Sorry Guys”.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Ma evidentemente al gruppo dei graffitari si deve essere aggiunta anche qualche ragazza, perché in quel che resta del piccolo bagno adiacente, sul muro si trova disegnato un grazioso specchio a sostituire quello che ormai evidentemente manca. La firma dell’autrice è accompagnata da un simpatico “Sorry Girls!” che scimmiotta quello della crew maschile. A terra invece tra i calcinacci, un cuscino e qualche straccio abbandonato lì da chissà quanto tempo.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)


Lasciamo il piccolo bagno e ci dirigiamo verso la grande area espositiva che è ancora divisa in settori. Ci perdiamo all’interno dei vari cubiculi tutti uguali, nei quali solo le piccole caselle numerate che indicano gli spazi espositivi ci aiutano nell’orientarci. Ogni tanto ritroviamo anche un po’ di cartellonistica simpaticamente arricchita da attacchi d’arte dei writers, vecchi cataloghi e aree in cui sono ammassati scampoli di tessuto, tutti elementi che riempivano l’edificio quando questo pullulava di vita. Sul fondo l’intricato reticolo di tubi grigi penzolanti dà sempre più l’idea che alla struttura sia stato strappato il cuore e tutto quel che resta sono i vasi che non hanno più la forza di pompare sangue.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Per proseguire il nostro tour siamo costretti ad uscire dall’edificio, visto che sembra non ci siano collegamenti tra i due reparti adiacenti, rientrando quindi da un ingresso laterale. Subito troviamo un altro ampio spazio conquistato da disegni e graffiti, sembra che i muri qui siano diventati davvero le bianche tele di street artist e writers.  È il luogo dove la creatività ha preso vita, tag dai colori brillanti invadono i muri, sembra quasi una gara tra i vari artisti a chi crea il murales migliore. Continui esercizi di stile, ma anche modi per collaborare tra amici, come dimostra l’enorme firma “Skolp x Respo” che occupa da sola una grossa porzione di muro.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Spiccano anche alcuni enormi disegni che raffigurano strani individui, che sembrano uomini solo in parte. A noi ricordano vagamente lo stile del fumettista Tonino Liberatore nella serie Ranxerox. In particolare colpisce un enorme pugile dallo strambo color celeste che con i suoi guantoni rossi sembra quasi pronto a colpirci. Poco più avanti, sapientemente inserito nell’unico spazio vuoto lasciato da due tag, è raffigurato un altro gigantesco signore con la sua pancia flaccida e il resto del corpo un po’ cadente che sembra particolarmente compiacersi del suo trovarsi all’interno di una vasca da bagno.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Sempre dello stesso autore nella stanza adiacente scopriamo un altro enorme disegno che segue lo stesso stile ma che diventa un po’ troppo  “radicale”: l’uomo è infatti rappresentato con gli arti monchi, costretto a dare piacere alle proprie parti intime utilizzando la bocca. Nelle vicinanze del murales sono presenti gli attrezzi del mestiere: un grosso secchio di vernice, una bomboletta abbandonata e diverse bottiglie d’acqua probabilmente consumate durante la creazione. Evidentemente il disegno ha richiesto una gran quantità di lavoro e forse non è ancora finito.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Lasciamo l’ultimo vano e ci dirigiamo all’esterno dove ci ritroviamo di fronte all’unico complemento d’arredo presente in tutto il mobilificio: un vecchio divano con doghe in legno che ha certamente avuto vita migliore. Ora si trova lì, rotto, scolorito, abbandonato e con alle spalle il pilastro con l’insegna Aiazzone, sembra quasi una metafora di ciò che resta del mobilificio.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Mentre proseguiamo il nostro cammino, dobbiamo fare attenzione a non cadere accidentalmente nei buchi aperti dei tombini: infatti sono state portate vie tutte le coperture. Il desolante parcheggio a tre piani è diventato il rifugio delle dichiarazione d’amore: diverse coppie hanno infatti inciso lì i ricordi più importanti delle loro storie. Proviamo a salire fin in cima dalle scale in metallo, ma ci accorgiamo presto che una buona metà è ormai crollata e non ci sembra il caso di rimanere oltre su quella scala pericolante. Prendiamo quindi una via alternativa e arriviamo sul tetto, dove grazie all’altezza abbiamo un’ampia visione della zona industriale che si erge alle nostre spalle.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Abbandoniamo il parcheggio, per recarci nel deposito merci, molto meno ampio del capannone precedente, ma in condizioni abbastanza simili. I detriti per terra in questo caso però sono di gran lunga inferiori, tra pezzi di muro e vecchie scatole di cartone abbandonate: sul pavimento sono presenti anche intere vetrate che sembrano quasi essere state spinte giù con la forza. I primi graffiti compaiono anche su questi muri. In particolare  spiccano scritte arancioni e l’enorme uomo che ormai ci è diventato famigliare. Qui è “vestito” da soldato, ha un delicato fiore bianco in bocca ed è circondato da sabbia e onde rosso sangue.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

A questo punto non ci resta che andarcene, consapevoli che come per le acciaierie Scianatico, dove il vuoto lasciato dagli operai è stato colmato dalla natura selvaggia, anche per l’ex mobilificio Aiazzone c’è chi si è preso l’impegno di tentare di ridare vita a qualcosa che sembrava ormai irrimediabilmente morto.  
 
(Vedi galleria fotografica di Gennaro Gargiulo)


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  • Michele - Vorrei aggiungere una nota sulla storia di questo edificio. Fu costruito negli anni '70 come cash and carry di articoli alimentari e casalinghi (uno dei fondatori fu mio padre), il primo in assoluto di questo tipo nel Sud Italia; la struttura architettonica con scheletro metallico e pannelli fu appositamente progettata da un architetto straniero, credo francese. La struttura nel tempo è stata utilizzata anche da altre catene come Toy Center, alla quale ha fatto appunto seguito Aiazzone negli ultimi anni. Purtroppo la concentrazione delle strutture commerciali e la crisi economica hanno reso inutile e antieconomica una sua riconversione e ristrutturazione. Un peccato vederlo in questo stato, così come tante altre strutture nella zona industriale abbandonate a se stesse.


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