di Irene Coropulis e Giulia Mele

Lo stregone Wiccan: «Nei riti magici formiamo con le streghe "cerchi spirituali"»
MARTINA FRANCA – «Non ci sono solo donne nella nostra religione ma anche tanti uomini: i gran sacerdoti formano con le gran sacerdotesse veri e propri “cerchi spirituali”». Sono le parole del 47enne tarantino Maximilian Vetrano (nella foto), stregone wiccan. Perché la “Wicca”, culto neopagano fondato su congreghe, riti occulti, pozioni e incantesimi, non prevede solo la presenza di streghe ma anche di stregoni, che seppur in minoranza (il 30% circa) hanno un ruolo importante all’interno del movimento nato in Gran Bretagna nel 1954.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Di questa religione vi avevamo già parlato quando intervistammo prima alcune credenti e successivamente una sacerdotessa barese. Quest’ultima la conoscemmo nel suo tempio domestico di Casamassima, dove tra pentacoli, altari, bacchette magiche, maschere e pugnali, ci parlò di come si preparano filtri d’amore e si svolgono le celebrazioni.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Rituali che seppur condotti dalle streghe, hanno sempre bisogno di una figura maschile, complementare a quella femminile. “Stregoni” appunto: uomini che intraprendono un percorso di iniziazione che li porta anche a guidare intere comunità.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Tra questi il succitato Vetrano, attivo nel principale tempio pugliese, situato nei boschi di Martina Franca, in provincia di Taranto. Lo abbiamo incontrato.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Qual è il ruolo di un uomo in una religione incentrata sulla figura della donna?   

La Wicca è una religione che esalta il principio femminile in quanto creatore di vita. Motivo per cui sono soprattutto le donne ad avvicinarsi al culto, che restituisce alla figura femminile ciò che nel corso dei secoli le è stato negato. Tuttavia nelle coven, le congreghe dei credenti, uomini e donne hanno gli stessi ruoli. Anzi i leader devono essere di entrambi i sessi: un gran sacerdote e una gran sacerdotessa, che vanno a formare “cerchi spirituali”. Essi incarnano i due elementi fondamentali e complementari: il Dio e la Dea. Sono quindi uniti nella celebrazione dei riti, dedicati sia ai movimenti solari che alle fasi lunari, anche se la sacerdotessa ha un’importanza maggiore nell’officiare i riti.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Lei oltre alle celebrazioni di che cosa si occupa?


Gestisco il coordinamento dei credenti pugliesi e lucani e istruisco gli iniziandi attraverso gruppi di studio che permettono di padroneggiare le conoscenze magiche e naturali. In Puglia contiamo una trentina di wiccan, ma siamo in tre, io e due donne, a gestire l’amministrazione della comunità.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Solo trenta?

Sì, ma poi ci sono tanti “simpatizzanti” che ci seguono e si ispirano a questa religione. Persone  che magari si sono fermate nel cammino spirituale perché spaventate dal lavoro interiore e dall’impegno richiesto dal sacerdozio. Tra l’altro, nonostante ci siano molte pratiche che dobbiamo tenere segrete, ai “sabba” possono partecipare anche i semplici corsisti.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

In che cosa consistono i “sabba”?  

Parliamo delle otto feste principali in cui celebriamo le varie posizioni del sole in base al periodo dell’anno: con danze e cerimoniali che mutano a seconda della stagione accogliamo una nuova fase naturale. Non dobbiamo confonderli con i “rituali lunari”, che si svolgono ogni mese in concomitanza con la luna piena e vengono per questo compiuti esclusivamente di notte.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Vi definite streghe e stregoni: ma non si tratta di termini legati alla magia nera?

Sì, ma voglio sottolineare come il nostro unico principio è proprio quello di non usare mai le nostre conoscenze per danneggiare il prossimo. È vero che la parola strega viene associata all’eresia e alla malvagità, ma per noi è sinonimo di persona che riesce a controllare le forze soprannaturali mettendo in contatto il cosmo con il mondo spirituale. È questa abilità che rappresenta il “magico”: attraverso erbe, pietre e vegetali, curiamo così l’anima.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

È quindi con le erbe che si preparano le pozioni? 

Se per esempio la melissa facilita normalmente il rilassamento, noi la usiamo per un incantesimo che porta alla quiete interiore. O ancora l’alloro, storicamente usato come segno di vittoria, viene fatto bruciare per un rituale volto a ottenere un successo nella vita.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Una curiosità: la Puglia è una regione che ha una tradizione “magica”?

I pugliesi hanno la fortuna di vivere in una terra da sempre legata al soprannaturale e alle streghe, le cui usanze nel mondo popolare spesso sono andate di pari passo con i riti religiosi. Mi riferisco alle litanie che recitavano le masciare, per esempio, con preghiere che mescolavano cattolicesimo e magia. Ma anche la pizzica, nella sua versione primitiva, non era solo un ballo ma conduceva a stati alterati della coscienza. Noi wiccan naturalmente ci adattiamo alle diverse tradizioni magiche locali, cercando di preservare e tramandare questo fondamentale bagaglio culturale.


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  • Vito Petino - FATE E FATI DELLE CASE Noi baresi veraci eravamo più spicci con la fortuna, prendendo per vero tutto quel che ci raccontavano. Da ragazzini si era molto creduloni a storie tra il fantastico e la realtà, che mamme, nonne e zie ci dicevano per tenerci buoni. A me e ai miei fratelli era zia Caterina, la sorella grande di mamma, che ci teneva incantati e incatenati attorno al braciere delle favole. Sono nato e ho abitato sino ai primi anni 50 in via Carulli. Quasi di fronte al nostro palazzo, nell'isolato fra piazza Balenzano e via Emanuele Mola, c'erano due piccoli portoni uguali, chiamati da tutti i portoncini di Biancaneve. In quello a sinistra, proprio a piano terra, sotto la rampa che dal portone conduceva al primo, era stato ricavato un bugigattolo in cui viveva accatastata la famiglia Fortunato, poverissima. Il tugurio, uno scatolone rettangolare posticcio da tre per sei calpestabile e due in altezza netta, ridotta rispetto ai quattro metri del primo piano, era incastrato in quella parte di volumetria nel retro dell’atrio del portone, uscendo per un bel tratto oltre la sagoma posteriore del fabbricato. Per respirare i Fortunato prendevano aria da uno striminzito finestrino in alto nel gabinetto, che dava sul piccolo cortile scoperto condominiale; gabinetto largo uno per uno e come arredo la sola tazza per wc; servizio che, fuori servizio, rimaneva sempre con porta aperta per arieggiare il resto della casa. Casa! Vabbè definiamola tale. Casa composta solo da uno stanzone centrale, che fungeva da stanza da letto con tanti materassi stesi per terra. Diveniva soggiorno pranzo di giorno, tolti i materassi e aperti due tavolini e 9 sedie pieghevoli fatte con strisce di legno, tipo pizzeria. La porta d'ingresso s’affacciava nella parte più ampia di quel che restava dell’atrio del portoncino, pur'essa sempre aperta d'estate per far corrente rinfrescante col finestrino del wc, ma forse meglio dargli il nome che ben gli si adattava, cesso. Ho detto casa composta solo, invece non finiva con wc e stanzone. C'era pure un piccolissimo disimpegno, appena entrati, che dava nello stanzone, e a destra un cucinino comunicante direttamente con lo stanzone. Il soffitto a scendere della rampa delle scale costringeva chi cucinava a piegare la testa vicino all'unica fornacella con cappa e tubo, che correva lungo il muro di confine dell’edificio accanto per convogliare i fumi all’aperto, oltre il muro del cesso. In cucina vi era anche un lavello rettangolare di cemento per lavare piatti e stoviglie; e per l’igiene intima mattutina, riempiendo bacinelle smaltate. Il rito del bagno settimanale, invece, veniva fatto in una tinozza di zinco, posta al lato del tramezzo del wc, dove di notte c’era a terra il materasso dei genitori. Si calavano in acqua a turno. Il trasporto continuo di acqua calda avveniva in pentoloni riscaldati sulla fornacella. L’intimità si creava al momento. Un tendone alto sino al soffitto faceva da separé, dietro cui si piazzava la tinozza. Di notte in quello stesso punto dormivano in terra i genitori su un solo materasso. Dopo l’uso la tinozza veniva appesa a un chiodo in alto nella parete libera del cesso. La famiglia era composta da padre muratore disoccupato, madre e, avrete già fatto il conto dalle sedie, sette figli. Non avevano di che mangiare. Si era nei primissimi anni del dopo guerra e, oltre che carenza di case, vi era penuria di lavoro. Cantieri alla periferia di Bari ve n'erano pochi a sfruttare i suoli agricoli che aggredivano gli edifici del periodo umbertino e dei decenni successivi sino alla seconda guerra; fabbricati che facevano mostra di sè attorno a quella che era la città di Bari in quell’epoca. Da San Giuseppe a sud, San Pasquale a ovest, e sino a San Cataldo a nord, con propaggini poco estese ai nuovi quartieri residenziali della città. Un Poggiofranco o Japigia, a esempio, non esistevano manco sulle carte. A est noi baresi siamo sempre stati sfortunati. Non abbiamo mai potuto costruire per la presenza del santo Adriatico. Bellissimo, pulito, trasparente a quei tempi, ma inabitabile. S'era tentato con edifici non residenziali, tipo Margherita e Barion, adagiati su palafitte realizzate con pilastri tondi di fondazione in cemento armato speciale, ma oltre non si era andati, salvo ulteriore tentativo, molti anni dopo, in quel di Punta Perotti, di cui tutti conoscono la brutta fine che ha fatto, per colpa di pochi uomini, spenti al piano attico, e che tanto ben di Dio hanno gettato via, provocandomi dolore come tecnico, e danno economico come cittadino, insieme a tutti i miei compaesani baresi, costretti a pagare errori non propri, ma da stanza dei bottoni. E torniamo alla sfortunata famiglia Fortunato. Quasi ogni giorno la mamma andava presso le cucine militari alle spalle della Caserma Picca, in fondo al Distretto Militare di piazza Balenzano, appena dopo il cinema Casa del Soldato, per farsi caricare cibo caldo in una buatta di quelle da cinque chili di salsa, naturalmente vuota e con manico di ferro filato intrecciato. Era costretta ogni giorno a mezzogiorno in punto a mettersi in coda con altri poveri e zingari per avere quel cibo che molte caserme nell’immediato dopoguerra preparavano per i più miserabili. Una notte, disperata più del solito, non riuscendo a prender sonno anche per il gran caldo estivo, andò a sedersi nel cucinino per piangere tutte le sue lacrime, più cocenti della notte afosa. Sembrava essersi calmata. Stava per alzarsi, quando un bagliore dalla fornacella spenta la paralizzò. In quella luce rossastra si materializzò la testa canuta di un vecchio con barbone bianco e denti candidi. - Signò, sind a mme. Uè iess aijtat? La povera donna riuscì a trovare una voce tranquilla e una calma interiore nel vedere quel volto serafico, e rispose con un timbro fievole, che non le parse il suo. - Sì, u nonn! - Allor statt attend a ciò che stoggh p disct. U vid u ffuech ijnd alla frnacedd? E sol tu u put vdè. Mitt l man ijnd o ffuech e vid dret c iacchij. Però, iabr l recchij. Ciù disc a qualche d'un, cudd fuech no n'u vit cchiù. Mangh a maritt u ada disc. E c cang cas, u stess u fuech sparisc p semb. Wuuuhhmm, la testa del vecchio sparì. Il fuoco rimase acceso nella fornacella. La povera signora, intronata e non sapendo che fare, pian pian vi mise le mani. Non sentendo dolore, le affondò nei carboni ardenti, tastando nel fondo un qualcosa di fresco e frusciante. Tirò fuori un pacco di lenzuoli rosa disegnati con cifre (la grande mille lire dell'epoca, che tanto riempiva gli occhi di chi la possedeva, in vernacolo barese veniva chiamata "u lnzer") e subito provvide a nascondere quella pesca miracolosa. Da quel giorno, anzi notte, i Fortunato divennero tali di nome e di fatto. Ogni notte la fornacella si accendeva, vista dalla sola signora che, manco fosse cassaforte senza fondo, prelevava somme sempre più ingenti. Per qualche anno la storia andò avanti. Il popolino nel vicinato ricamava a modo suo su quella fortuna. A un certo momento fu il marito a non sopportare più quelle voci maligne. - Scus, m uè disc da do cazz ven-n sti trris. E t so ditt ca mo d trris n tnim assà. Ngi’avastn fin a quann mrim, nù e ald e sett generazziun. Pgghiamc na casa chiù grann e sciamaninn, acchsì l crstian la frnescn d disc ca fasc la pttan. U sacc ca nonn'è vver. Ma prcè non m uè disc da dò l pigghij. O mraghl chmmenzch a non cred cchiù mangh jì! Nei primi tempi moglie e marito si erano accordati che, pur non avendone bisogno, sarebbe stato meglio lavorare, per non attrarre troppo gli occhi degli invidiosi su di loro. Il marito e i figli più grandi avevano trovato lavoro nei tanti cantieri che, nel frattempo, fervevano in tutte le periferie baresi, e anche in qualche isolato murattiano, in cui cadevano vecchi edifici in tufo portante per vedere rinascere palazzi più moderni. Fu dopo lo sfogo del marito che la povera donna, incolpevole delle tante calunnie che le piovevano da ogni dove, e anche per non coinvolgere i figli nelle torbide storie inventate su di lei, non volle andare oltre. Così raccontò tutto, liberandosi per sempre di fuochi e fornacella, fati e fate della casa… Anni dopo, scherzando col mio compianto prof di costruzioni al Pitagora, il caro ing Benedetto Tisbo, gli chiesi per un compito in classe inerente il progetto di una casa. - Mi scusi prof, il progetto lo vuole completo di fata della casa, o no? Chi ha avuto la fortuna di averlo come insegnante, sa già quale fu la risposta piccante (tratta dal libro PRENDERE LA VITA A CALCI, in cui questa diciamo fiaba è riportata totalmente in classico vernacolo barese, scritto come parlato)... Dedico questa storiella al caro ed esimio geom. Mimmo Ludovico, nonché vecchio marpione, nel senso di saggio ed esperto tecnico della storia edilizia di Bari, quale funzionario dell'UT del nostro Comune, di cui ho letto un commento nel post dell'altro esimio imprenditore Adamo Lacalendola, figlio di quel Simeone, altrettanto solerte imprenditore, che ho avuto il piacere di conoscere negli anni 70 e seguenti sempre presso gli stessi uffici, dove mi recavo per esercitare la mia libera prof. E ora, ragazzi, su coraggio, chi vuole esibirsi in un esercizio grafico? Armatevi di matita e gomma per disegnare il parallelepipedo “bugigattolo”, intersecando la sua volumetria con quella di un terzo di atrio posteriore, e la restante volumetria da sistemare oltre la sagoma posteriore del fabbricato, servendosi della descrizione riportata nel racconto. Buon lavoro…


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