Cantieri navali, in tutto il barese ne sono rimasti solo due: a Molfetta e Monopoli
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lunedì 22 ottobre 2018
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di Eva Signorile - foto Eva Signorile, Antonio Caradonna
Ed è proprio dal paese a nord di Bari che parte il nostro viaggio alla scoperta delle fabbriche superstiti. Siamo nel chiostro della chiesa di San Domenico, a pochi passi dal porto, dove incontriamo le nostre guide: il pescatore in pensione Carlo Amato, il membro dell’Archeoclub Onofrio Gallo, il docente dell’Istituto nautico di Bari Ignazio Dragone e il proprietario di un capannone ormai dismesso: Luigi Salvemini. Ci siamo dati appuntamento in questo posto non per caso, visto che l’edificio ospita il piccolo "Museo etnografico del mare", spazio espositivo che raccoglie riproduzioni in scala di barche e oggetti del mestiere.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
«Fino a una trentina di anni fa - esordisce Salvemini - Molfetta aveva una flotta di 150 pescherecci lunghi dai 28 ai 32 metri. Erano così grossi da poter rimanere in mare anche dieci giorni di fila: si fermavano solo in caso di maltempo o di vogheraggio, vale a dire la sosta per rifornirsi di cibo e carburante».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Il mare dava lavoro, il settore della pesca era molto vivace e questo portava inevitabilmente a una grande richiesta di imbarcazioni di ogni dimensione, stimolando l'attività dei cantieri. Ma l'Unione europea pose fine all'epopea di questi grandi laboratori. «Fino agli inizi degli anni 90 – ci spiegano quasi all’unisono - l’Italia pescava il doppio di Francia e Spagna: perciò l’UE decise di imporre dei limiti». I pescatori furono quindi incentivati ad abbandonare la loro attività con importanti contributi economici: un cambiamento che però esigette in cambio la consegna della licenza di pesca e la demolizione delle imbarcazioni.
«Il primo bando offrì 11 milioni di lire per tonnellata di peso della nave posseduta – spiega Luigi -: calcolando che alcune navi sfioravano le 110 tonnellate, è facile capire come in quegli anni si assistette a una vera e propria corsa per dire addio alla professione. Di conseguenza i cantieri entrarono in crisi e ad oggi l’unico che costruisce ancora è il Cappelluti-De Candia».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Con i nostri ciceroni ci dirigiamo quindi verso l'unico stabilimento della città rimasto in vita. Usciamo dal chiostro e camminiamo lungo via San Carlo verso nord, ma giusto per un centinaio di metri: sulla destra spunta subito la nostra destinazione, situata tra la nuova capitaneria e il molo Pennello.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Entriamo in un'area dove sembra di essere all'inizio del 900. A pochi passi dall'acqua si stagliano piccoli capannoni dal tetto spiovente, con il rosso delle tegole che contrasta in modo deciso il bianco delle pareti e il blu degli infissi.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Ed eccolo il primo “gigante”: un nuovo peschereccio in fase di costruzione. Ci avviciniamo, guidati dal rumore sordo di un martello che batte sul legno: due uomini stanno modellando una carena in compensato marino e ci spiegano come occorrano circa nove mesi per dar vita a una barca del genere.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Poco più in là si staglia un altro colosso in legno, inclinato su un fianco: è la "Angelo", danneggiatasi durante il varo. «Sono incidenti che capitano - illustra Ignazio - soprattutto quando la nave viene trascinata in mare con la cosiddetta "invasatura", cioè facendola scorrere su appositi binari in legno. È un sistema arcaico: nei cantieri moderni di solito si usa una gru a ponte».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Ci spostiamo ora 80 chilometri più a sud, a Monopoli, dove le radici della costruzione navale affondano alla metà dell'800. «Il primo capannone - afferma Vincenzo Saponaro, maestro d'ascia e storico locale - fu aperto dal mio avo Paolo Saponaro, falegname che all’inizio della sua attività era al servizio dei molesi Gaudioso. Il "pioniere" decise in seguito di mettersi in proprio, per aprire un laboratorio in Cala delle Batterie. La sua arte è stata tramandata per decenni in tutta la famiglia, che recentemente per varie vicissitudini ha smesso però di fabbricare imbarcazioni. Oggi al nostro posto ci sono gli Uva, di origine molfettese».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Per giungere a destinazione dalla statale 16 imbocchiamo l'uscita "Monopoli nord", immettendoci in viale Aldo Moro. Dopo un centinaio di metri svoltiamo a sinistra in via Marina del Mondo e guidiamo per altri 900 metri: la nostra meta, il “Viromare Uva”, appare sulla sinistra.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Varchiamo il cancello, fiancheggiando l'edificio che ospita gli uffici e attraversando un piazzale pieno di barche di diverso tipo. Qui infatti oltre ai pescherecci si fabbricano anche yatch e motoscafi. Tutto poi è più moderno: il varo per esempio non avviene con l'invasatura, ma grazie a un altissimo carro elevatore che adagia i natanti su un canaletto artificiale. Il marchingegno può sollevare qualcosa come 150 tonnellate.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Il rumore dei colpi battuti sul metallo regna sovrano. C’è chi si affanna col martello e un grosso chiodo, chi è invece impegnato a sigillare tutte le fessure: tutti sono agli ordini di Vincenzo Uva, il proprietario, troppo impegnato per poterci parlare. Mentre ci facciamo largo tra scale metalliche, cumuli di reti da pesca, robuste funi rossastre e grovigli di cime nautiche, a colpirci sono le imbarcazioni più grandi.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Ci impressiona una barca posizionata sotto un capannone mobile, ma anche l'elica di un altro natante, alta addirittura più di noi. E infine ci avviciniamo alla sagoma di un peschereccio bianco e azzurro in riparazione: sembra guardare con nostalgia al mare, nell’attesa che possa tornare nuovamente a solcare le onde.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
(Vedi galleria fotografica)
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I commenti
- DiEmme - Bell'articolo Eva, mi piacerebbe leggere qualche commento degli amanti del genere, e valorizzare l'operato di qualche Mastro d'ascia che, per l'età, non potrà mai avere accesso a questo Media. Vero é peró che potrebbe farsi aiutare da qualche nipote!
- pietro furio - scusate, ma se in provincia di bari sono rimasti solo due cantieri navali, quello di mola di bari cos'è??