di Micaela Ricci

Il pittore Pino Loiacono, ''Canaletto barese'' dimenticato dalla sua città
BARI - «Amo la mia città, ma continuo a non ottenere nulla qui, per questo ho deciso di andare via». Le parole sono di Giuseppe Loiacono, detto Pino, 74enne pittore barese misconosciuto e dimenticato a Bari ma apprezzato nel resto d’Italia e in Francia, Paese dove ha vissuto e ha ricevuto importanti riconoscimenti. C’è chi lo ha anche definito “Il Canaletto barese”, ma di lui e della sua affascinante storia nessuno ha mai parlato. Abbiamo deciso di farlo noi, incontrandolo nel suo negozio di dipinti e cornici in via Celentano che presto abbandonerà (vedi foto galleria).

La sua è stata una vita passata a servizio dell’arte. Come ha iniziato?

La storia è questa. Quando avevo 11 anni andai a lavorare in una sartoria, dove portavo i vestiti a domicilio. Uno dei clienti era un bravo pittore macchiaiolo barese che non potrò mai dimenticare, Marino Cives, che spesso per comodità lasciava i suoi quadri nel negozio. Quando il proprietario usciva per qualche commissione e io restavo solo, prendevo i gessetti del suo mestiere e riproducevo di nascosto quei quadri sul pavimento. Naturalmente al suo rientro cancellavo tutto.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

E nessuno ha mai scoperto che disegnava di nascosto?

Per fortuna sì. Se non mi avessero scoperto forse non avrei mai avuto il coraggio di diventare davvero un artista. Un giorno Cives lasciò un dipinto che ritraeva il lungomare di Bari. Come d’abitudine io iniziai a riprodurlo per terra e, sul più bello, il macchiaiolo entrò nel negozio e scoprì quello che facevo. Si meravigliò molto per il mio talento e mi chiese di andare a portare i vestiti commissionati al sarto a casa sua. Qui mi diede dei tubetti di colore quasi terminati, dei pennelli spennacchiati e mi chiese di disegnare qualcosa. Il suo stupore davanti alla mia realizzazione fu ancora maggiore. Non dimenticherò mai le sue parole: «Quando avrai abbastanza peli sulle gambe, vai via da Bari, altrimenti farai la mia fine». Quelle parole sul momento non le avevo ben capite ma una cosa è certa: il desiderio di scappare mi venne davvero.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

E quindi lei partì alla volta della Francia…

Già all’età di 13 anni avevo provato a fuggire: i miei genitori mi recuperarono al confine con la Francia. A 16 anni però ci riuscii: attraversai la frontiera clandestinamente con in tasca una cartolina del passo del Monte Bianco. Arrivai ad Abriès, al confine, e poi fui assunto da una ditta italiana a Parigi. Nel frattempo continuavo a dedicarmi alla mia passione e cercavo di capire come fare ad affermarmi.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Come ha fatto a far conoscere il suo talento a Parigi?

Non è stato difficile, Parigi è una città preparata all’arte e ha fatto per l’arte quello in cui l’Italia non è riuscita: credere nei suoi artisti dando loro la possibilità di affermarsi. Spesso dipingevo sul balcone della mia casa in rue Lucien Sampaix, facendo ammirare le mie opere ai passanti e il pomeriggio esponevo i miei quadri a Montmartre con altri artisti italiani, superando gli artisti francesi per successo e vendita. Facevo, insomma, una vita da bohémien com’era diffuso in quel particolare periodo storico.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

E la “svolta” quando arrivò?

Nel 1966, anno che non potrò mai dimenticare. Stavo lavorando per la costruzione di una strada vicino al municipio che costeggiava la Senna e un ristorante molto conosciuto che si trovava in quella zona, “Le Trumilou”, mi propose di fare la mia prima esposizione personale all’interno del suo locale. Naturalmente accettai e scoprii che la proprietaria era un’amica d’infanzia dell’allora Primo Ministro Georges Pompidou il quale, trovatosi a mangiare lì, apprezzò molto le mie opere e decise di acquistare uno dei miei quadri, quello raffigurante Giovanni XXIII. Da allora tutto cambiò.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)


In che modo?

Nel 68 il ministro Merer mi conferì il titolo di cavaliere al merito per “servizio reso al prossimo e all’arte della pittura”. Questo primo riconoscimento mi venne dato per la mia arte ma anche perché avevo soccorso due persone che avevano tentato il suicidio sulla banchina della Senna e le avevo salvate. Nello stesso anno fui accolto all’interno della “Société des artistes indépendants” e vinsi con grande soddisfazione il premio del pubblico durante un concorso al Grand Palais. Nel 70 fui decorato del titolo di “Ufficiale al merito per l’arte della pittura”. Credo che di più non potessi desiderare. Nel 72 però, quando l’azienda per la quale lavoravo mi propose di partire per l’Africa, decisi di rientrare a Bari con la donna italiana che avevo conosciuto a Parigi e che sposai al mio rientro in Patria.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Com’è stato il successivo rapporto artistico con l’Italia?

L’Italia mi ha dato tanti riconoscimenti, uno dei più illustri è stato nel 97 durante la Biennale di Venezia. Ne potrei citare tanti altri, ma quello che reputo più importante è dell’“Academia gentium pro pace” che nel 2005 mi ha conferito il massimo titolo riservato agli operatori d’arte.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

E Bari?

Per Bari ho realizzato vetrate artistiche per alcune chiese del centro, ad esempio la chiesa dei cappuccini di via Abbrescia, interni di palazzi antichi e altre opere e alcuni critici d’arte italiani hanno detto che dipingo scorci della città come faceva il celebre Canaletto per le sue vedute di Venezia. Ho in effetti realizzato molti dipinti di zone di Bari (corso Cavour, via Sparano, piazza Garibaldi) ed entrambi abbiamo realizzato quadri veristi, ma il paragone è solo per la scelta dei soggetti rappresentati, non per il modo di dipingere. Purtroppo però a Bari non c’è mai stato alcun riconoscimento per il mio lavoro: di fatto qui sono sconosciuto e continuo a non riuscire a vendere nessuno dei miei quadri. I baresi purtroppo sono levantini, cambiano il loro pensiero come il vento e le istituzioni sono indietro rispetto ad altre città e non hanno alcun senso artistico. Amo Bari ma qui non riesco a lavorare come vorrei e mi dispero perché ci sono tanti talenti locali che non riescono ad emergere.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Per questo ha deciso di abbandonare la città?

Sì, qui l’arte è nelle mani di persone che non hanno la sensibilità giusta e che gestiscono male luoghi come la Pinacoteca provinciale. Proprio in questo luogo espositivo hanno rifiutato di fare una mia personale dicendomi che «non siamo in Francia». E quindi ho detto basta e ho deciso di trasferirmi da mio figlio a Roma, dove continuerò il commercio delle mie opere. La mia amata città non ha più posto per me. 


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  • gabriel - Purtroppo è la verità, questa città non ama l'arte, il bello. Per i baresi conta soltanto quello che guadagnano. Le gallerie d'arte chiudono, i figli migliori sono costretti ad emigrare. I ns. amministratori dimostrano ancora una volta la miopia. Che squallore.
  • Gigi De Santis - Complimenti alla giornalista Micaela Ricci per l'interessante articolo, molto singolare, mettendo ancora una volta in evidenzia la doppia personalità della comunità barese, che non sa apprezzare i suoi figli artisti, quelli veri, elogiando artisti fasulli, per il semplice fatto che si sono esibiti in una televisione nazionale in programmi commerciali. Oppure continuano ad elogiare artisti raccomandati da qualche politico comunale, regionale o nazionale. Si continua a notare nella nostra città, una cultura popolare e non barese, che non decolla, per via di una mentalità ancora piena di pregiudizi. E' svanito da decenni il motto: . Complimenti alla redazione che ci fa gustare storie, curiosità sconosciute o poco conosciute.


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