di Annarita Correra - foto Antonio Caradonna

Tra muezzin e wudu un angolo di Bari che sembra Istanbul: la moschea di via Cifarelli
BARI – Sull’estramurale Capruzzi, precisamente in via Cifarelli 28/c, tra le fabbriche abbandonate del Quartierino e a pochi passi dal cosiddetto “far west” di Bari, si trova un cancello verde dietro al quale si nasconde un luogo di culto fatto di tappeti morbidi e colorati che ci portano in una realtà orientale lontana e suggestiva: è la moschea di Bari, la più grande della Puglia. (Vedi foto galleria)

Nata negli anni 90, aveva come prima sede un piccolo locale alle spalle del Tribunale civile in via Crispi, poi con l’aumentare dei fedeli (oggi nel capoluogo pugliese si contano circa 10mila musulmani) è nata la necessità di trovare un luogo adatto ad ospitarli tutti. E così dal 2006 la comunità islamica si è trasferita qui, nell’edificio che ospitava “l’Anfiteatro”.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Siamo andati a visitare la moschea in un venerdì, il giorno dedicato dai musulmani alla Jumuʿa, la preghiera comunitaria (una sorta di messa domenicale cristiana). Sul muro esterno due targhe colorate con scritte in arabo indicano la presenza della comunità. Questa di Bari è comunque ben lontana dalle tipiche moschee con lampadari in oro e minareti.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

«In realtà in Italia non esiste nemmeno lo status giuridico di moschea - sottolinea Sharif Lorenzini, presidente della comunità islamica di Puglia –. Noi chiamiamo questo luogo così, ma in realtà bisognerebbe definirlo un centro culturale». Centro culturale perché all’interno della struttura si svolgono numerose attività, tra cui l’insegnamento religioso e attività ludiche per i bambini, vista anche la presenza di un cortile.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Ma ecco che i primi fedeli iniziano ad arrivare: entrano in silenzio, sono prevalentemente uomini ma ci sono anche un paio di donne e qualche bambino. Si salutano e si abbracciano pronunciando il tipico saluto islamico: “salam aleikum”. Nel cortile un grande capanno in legno protegge dalla pioggia gli uomini intenti a togliersi su larghi tappeti azzurri le scarpe, che poi appoggiano su una lunga scarpiera in legno. Sono perlopiù africani e mediorientali, ma c’è anche qualche italiano, come “Alì”, ovvero Alessandro Pagliara, barese convertito all’Islam da quattro anni.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Gli uomini riposte le calzature si dirigono scalzi verso dei lavabi e iniziano a lavarsi lentamente. «Questo è il rito del Wudu o “abluzione” – ci spiega Alì -. Si compie prima di entrare in moschea e consiste nel lavaggio delle mani, della bocca, del naso, del volto, del capo, delle orecchie, dell’avambraccio e infine dei piedi per tre volte».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Lo stesso rituale viene compiuto dalle donne, ma in una zona separata sulla sinistra: dietro a un paravento verde lasciano le loro scarpe ed entrano in una piccola stanza rivestita completamente da tappeti rossi e blu. Anche noi ci togliamo le calzature e varchiamo la soglia del locale.  Appena entrati notiamo uno scaffale ricco di testi sacri e un amplificatore. «Da qui ascoltiamo la voce dell’Imam e preghiamo», ci spiega una ragazza somala di 22 anni accovacciata a terra, con i capelli avvolti nello hijab (un foulard che copre solo i capelli e il collo) pronta a leggere una sura del Corano.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)


Di fatto quindi le donne pregano separati dagli uomini. Entra un’altra fedele. E’ sulla quarantina, veste all’occidentale, ma dopo essersi tolta le scarpe tira fuori dalla borsa un lungo vestito scuro, lo jilbab e si inginocchia su un piccolo tappeto blu messo in diagonale rispetto agli altri: è posto in direzione della Mecca e serve per una particolare preghiera detta  rakat. Consiste in due inchini (ruku’) e due prostrazioni in ginocchio (sujud) fatte tenendo i palmi delle mani per terra con la fronte e la punta del naso che toccano il pavimento.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

L’atmosfera che si respira in questa stanza è molto particolare: le donne (che non vogliono farsi fotografare) sono solamente tre, si conoscono tra loro ma dopo essersi scambiate un silenzioso saluto non si guardano più: ognuna siede in un angolo in una dimensione intima e solitaria.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Ad un certo punto parte il suggestivo canto del muezzin, colui che intonando l’adhan (l’invito alla preghiera) richiama i fedeli. Ci spostiamo allora nella zona riservata agli uomini: sono quasi duecento e non tutti indossano abiti musulmani. La sala è molto grande: 300 metri quadri ricoperti da tappeti persiani verdi con dettagli color oro.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Su una parete notiamo un tabellone con scritte in arabo e numeri: indica gli orari delle preghiere che i fedeli compiono durante la giornata. Ci colpisce una scultura in legno tondeggiante che decora la sala. «L’ho scolpita io a mano - ci dice Alì -. Quelle che leggete sono scritte in arabo: tradotte in italiano recitano "Pace e benedizione su di Lui" e vengono proclamate ogni volta che si pronuncia il nome del profeta Maometto». Accanto alla scultura posa per una foto l’imam Swandy Ghazy, un uomo con una lunga barba vestito con una tunica nera detta giarabia. In mano ha il Corano.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Ma è arrivato il momento di iniziare la preghiera. I ritardatari si sistemano all’esterno e aspettano che l’Imam dia il via alla sua orazione sul minbar (una specie di pulpito posto di fronte ai fedeli). Quando il “sacerdote” comincia a declamare il suo sermone quasi tutti gli uomini si coprono la testa, si inginocchiano sui tappeti e rimangono fermi ad ascoltare. Il tutto per un’ora e mezza, visto che la Jumuʿa inizia alle 12.30 e finisce alle 14. Alla fine c’è spazio anche per la traduzione in italiano delle parti salienti della preghiera.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

La moschea a questo punto si svuota: i fedeli si rimettono le scarpe e vanno via. Noi usciamo, ci guardiamo intorno e sì, capiamo di essere ancora a Bari: per un attimo ci era sembrato di trovarci a Istanbul.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

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