di Mimma Guagnano

I creativi pubblicitari: «Osiamo contro la banalità delle aziende»
BARI - «Usiamo la scrittura ma non siamo giornalisti. Usiamo la fotografia ma non siamo fotografi. Usiamo la psicologia ma non siamo psicologi. Quello del pubblicitario è un mestiere che ha che fare con l’arte, con chi la sa fare e con chi la sa apprezzare». Per tuffarci del mondo della pubblicità, quella creativa, quella che riesce a “entrare nella testa” delle persone e nell'immaginario collettivo, attraverso slogan, immagini e frasi ad effetto, abbiamo parlato con il 73enne barese Geppi De Liso, storico direttore creativo nell’ambito degli spot, attivo dal 1968 e autore dell’importante saggio “Creatività & Pubblicità”.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Chi sono i creativi pubblicitari?

Nel reparto creativo le due figure chiave sono rappresentate dal copywriter che si occupa dei testi e dall’art director che si occupa delle immagini. Due cose imprescindibili, l’immagine e il “titolo”: una pubblicità senza l’una o l’altro non avrebbe senso.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Il titolo è quello che noi consumatori chiamiamo slogan?

“Slogan” è un tipo di titolo, è quello imperativo. Ad esempio “Non avrai altro jeans all’infuori di me”, oppure “toglietemi tutto ma non il mio Breil”. In realtà per titolo si intende tutto ciò che rappresenta la parte scritta, ciò che può essere letto dal consumatore, la prima cosa che si vede. «Il titolo sta all’annuncio come l’insegna sta a un negozio», ha detto la pubblicitaria Annamaria Testa, colei che ha creato titoli quali  “liscia, gassata o Ferrarelle”. I maggiori titolisti italiani sono intellettuali, personaggi che hanno fatto la storia della pubblicità, che hanno scritto libri e tenuto lezioni, che hanno discusso della pubblicità in maniera eccezionale. Potrei citare nomi come Emanuele Pirella, Pasquale Barbella, Marcello Marchesi e tanti altri, come Achille Campanile, ideatore del famoso “Cin – cin…Cinzano!” del 1925 rimasto poi come sinonimo di brindisi. Titoli come questo ti rimangono impressi nella mente tutta la vita.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Non ci si può quindi improvvisare creativi…

No. Bisogna capire di psicologia, avere gusto per l’arte, saper scrivere. Anche se oggi si pensa che il titolista possa essere pure un ragazzino che ha fantasia, ma non è così, al massimo potrà scrivere delle frasi d’amore da mettere nei cioccolatini. Mi accorgo ogni giorno di quanti errori e strafalcioni ci siano nelle pubblicità, compiuti magari da chi si improvvisa pubblicitario e sa forse solo usare discretamente un computer. L’ultimo ad esempio è di questa mattina: il nuovo manifesto del Pd riportava la scritta “un’anno di governo” scritto con l’apostrofo. Un computer sarà anche veloce, ma non porrà mai la stessa dedizione e attenzione di un professionista che tiene a far bene il suo mestiere. Dietro la creazione di una campagna c’è un grosso lavoro di squadra, c’è impegno. Non basta piazzare un elemento “bello” e pensare che basti questo a far vendere un prodotto.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Vuol dire che se anche una pubblicità è bella non è detto che funzioni?

Esatto, questo è stato il motivo per cui per anni i pubblicitari riuscivano a fatica a fare comunicazione. Per intenderci, nel periodo di Carosello ad esempio, la televisione dava ampi spazi di tempo dedicati ad inutili teatrini e limitava lo spazio dedicato al messaggio pubblicitario solo agli ultimi secondi della trasmissione, il cosiddetto “codino”, divertendo ma portando invece alla distrazione chi doveva porre attenzione al messaggio finale. Un esempio è la scenetta del personaggio (Ernesto Calindri) seduto al tavolino all’esterno di un bar: “Contro il caos della vita moderna bevi un Cynar”. Erano scenette simpatiche che divertivano ma che non raccontavano l’essenziale del prodotto, né rivelavano la qualità dell’azienda, quindi non vendevano quanto avrebbero dovuto. Avevano la stessa importanza di un cartone animato. Lo stesso avveniva per la cartellonistica, la cosiddetta rèclame, che mostrava realizzazioni pittoriche dei più grandi artisti, apprezzati solo dagli amanti dell’arte e quindi poco capiti dal resto del pubblico che non si accorgeva quasi del messaggio pubblicitario. Un titolo deve essere capito dal pubblico a cui ci vogliamo rivolgere e deve poi creare simpatia, empatia, afflato, ovvero far sentire il lettore parte del mondo di quell’azienda. Non solo farlo ridere ma colpirlo, prima ancora di convincerlo a comprare.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)


Ma il pubblicitario quanta libertà ha nei confronti dell’azienda?

L’agenzia ha a disposizione un brief che è una sorta di scheda di riferimento che contiene le informazioni e le direttive dell’azienda che servono ai creativi per l’ideazione della pubblicità. Un’analisi sintetica ed esaustiva delle richieste, il piano da seguire insomma. Il controllo e la supervisione delle aziende è  sempre costante, spesso hanno da ridire anche sui colori o sulla scelta di un carattere, a volte contestano gli slogan. Chi commissiona il lavoro non si pone da spettatore ma si pone da esperto e accampando motivazioni spesso inconsistenti, trova da ridire su soluzioni geniali dei creativi costretti così a realizzare idee banali il più delle volte preferite da aziende che non amano “osare”. Considerano il pubblico come fosse uno psicologo che analizza tutto, in realtà il pubblico è altro e il pubblicitario ha studiato il modo di comunicare con lui con i giusti mezzi, cose che le aziende non immaginano nemmeno. In ogni caso il controllo dell’azienda è importante poiché impone al creativo l’attenzione sufficiente a non fargli commettere errori.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Continuiamo però a vedere in tv spot senza creatività: c’è chi piazza un testimonial prestigioso e si limita a questo per lanciare i propri prodotti...

Il testimonial si usa quando non si hanno le idee giuste, quando non si sa che anima dare al prodotto e come farlo parlare in “prima persona” e quindi si chiama qualcuno che il pubblico riconosce per farlo parlare al posto suo. Così si usa il comico o il calciatore per sfruttarne la simpatia e il prestigio, oppure il tecnico per la sua esperienza (l’idraulico per la lavatrice) o la massa (decine di donne hanno usato quel prodotto) e così via. Ora si ha la tendenza a dire “purché se ne parli” e ci sono aziende ormai conosciute che si limitano a tener viva la comunicazione, ma senza voler “convincere” a comprare, perché ritengono di essere già affermate.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Si ricorda di qualche azienda che invece ha voluto osare?

Per fortuna non sono poche. Per esempio, visto che ne ho già citato lo slogan, la ditta Jesus dei famosi jeans nel 1972 volle utilizzare una foto di Oliviero Toscani per una campagna pubblicitaria che affidò a lui e ai copywriter Emanuele Pirella e Michele Göttsche. “Non avrai altro jeans all’infuori di me” era il titolo abbinato a una foto che ritraeva il bacino di una fotomodella che aveva il pantalone con la cerniera semi aperta. Una seconda foto faceva vedere il fondoschiena di una ragazza che indossava un paio di shorts molto succinti su cui campeggiava il titolo “Chi mi ama mi segua” (nella foto). Titoli, immagini e marca del prodotto suscitarono un vespaio di polemiche e molto dissenso da parte dell’opinione pubblica sia per la prima che per la seconda foto, il cui slogan venne erroneamente attribuito a una frase di Gesù (in realtà era stata pronunciata da Filippo IV di Francia detto il Bello prima di una battaglia). Pier Paolo Pasolini nell'articolo "Analisi linguistica di uno slogan" pubblicato sul Corriere della sera il 17 maggio 1973 scrisse: «Un recente slogan, quello divenuto fulmineamente celebre, dei Jeans Jesus si pone come un fatto nuovo, un’eccezione nel canone fisso dello slogan, rivelandone una possibilità espressiva imprevista». In fondo nel manifesto non c’era nulla di dissacrante, ma era efficace a livello comunicativo. Ma efficace può essere, così come è stata, l’intera pagina di un quotidiano lasciata completamente bianca con in basso a destra scritto piccolissimo lo slogan “Più bianco non si può” con accanto l’immagine di un fustino Dash. Un titolo per niente sparato ma con una forza comunicativa fra le più potenti che io ricordi nella mia carriera.


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  • silvio - Mi spiace, ma non sono d'accordo sul fatto che la pubblcità sarebbe arte. Ho cercato di dimostrarlo nel mio libro "Con le zampe di elefante", edito dalla Iuppiter edizioni. I cari colleghi Valletta e De Liso mi conoscono e se vogliono sono a disposizione per un incontro.
  • Geppi - Non ho mai detto che la pubblicità sia arte, era il titolo precedente, non mio, che lo diceva, ho chiesto di cambiarlo ed è stato cambiato.


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