di Mariangela Dicillo

Dall'attimino al
Si chiama “Piuttosto che. Le cose da non dire, gli errori da non fare” ed è un libro scritto dai professori di Linguistica Valeria Della Valle e Giuseppe Patota, che finalmente “ufficializza” un fenomeno che sembra ormai inarrestabile: la storpiatura della lingua italiana.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Funziona così’. A un certo punto c’è qualcuno che decide utilizzare un termine in modo errato e, aiutato dalla forza dei media, riesce a far sì che questa espressione faccia il giro dell’Italia diventando un “tormentone globale”. 

Prendiamo il caso del “piuttosto che”, da sempre espressione usata come avversativa (“piuttosto che parlare così preferisco ammazzarmi”), ma che da qualche anno viene utilizzata, al contrario, come disgiuntiva (“posso mangiare la mela piuttosto che l’arancia”, nel senso di “la mela oppure l’arancia”). Di fatto c’è stato un ribaltamento del significato, senza un motivo apparentemente valido.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

E poi abbiamo “attimino”, diminutivo del sostantivo attimo e che quindi dovrebbe essere usato nell’ambito di una preposizione temporale e invece viene usato per sostituire “un po’”. Frasi come “sono un attimino stanco” o “la casa è un attimino in disordine” sono utilizzatissime e sbagliate.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Ancora: l'espressione "assolutamente sì" (o della sua controparte, "assolutamente no"),  che a un certo punto in tv è dilagata in maniera martellante, usata sempre e comunque, anche in contesti in cui non ci sarebbe bisogno di alcun rafforzamento.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Per capire qualcosa in più su questo fenomeno, abbiamo intervistato Valeria Della Valle.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Dove e come nascono le storpiature della lingua?

Dai media. Ci sono “mode giornalistiche” che  a un certo punto si trasformano in veri e propri modelli linguistici da seguire. Spesso chi li utilizza non sa neanche che sono errati.  

Quindi la colpa è della Tv…

Sì, l'unico personaggio televisivo che ha sempre parlato un italiano senza inflessioni regionali è stato Mike Bongiorno. Tutti gli altri, soprattutto i conduttori e i giornalisti di oggi, non hanno mai posto molta attenzione al modo in cui parlano, forse perché vanno sempre “di fretta”. Come Simona Ventura ad esempio, che tra l’altro è un personaggio anche molto seguito.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)


Queste mode partono sempre dal Nord Italia, ma poi si spostano e si radicano anche al Sud. Possiamo parlare di “scimmiottamento” di modelli linguistici e sociali considerati “superiori”?

Certo, possiamo affermarlo. Fino all' Ottocento e ai primi del Novecento era il modello linguistico del fiorentino a prevalere. Poi, negli anni 60, quelli del boom economico, in Italia si è iniziato a prendere il Settentrione come esempio. Era ed è la zona più ricca del Paese, quella della "gente per bene che sa parlare" e il suo prestigio si è conservato negli anni, fino ai giorni nostri, spesso però in maniera eccessiva.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

C’è la possibilità che queste espressioni possano entrare a far parte in pianta stabile nei dizionari?

No, perché la nostra grammatica detta precise norme e strumenti come i manuali e i dizionari sono proprio le “sentinelle” che possono aiutarci a esercitare un uso corretto della lingua.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Però ci sono delle parole “dialettali” che sono diventate a tutti gli effetti italiane…

Sì. Penso prima di tutto a una parola romana: “ragazzino”. Fu Alberto Sordi ad usarla per la prima volta chiamando un adolescente “a ragazzì”. La mia mente va anche all’espressione “una cifra” (per indicare qualcosa che vale molto), che ho sentito spesso usare da più giovani. La sua diffusione risale all’incirca a 50 anni fa. Poi c'è “lavello”, che è stata coniata negli anni del boom dalle pubblicità delle industrie del Nord che producevano cucine. Prima si chiamava lavandino, lavabo o acquaio. Infine la parola “inciucio”,  che viene dalla Campania e che indicava il pettegolezzo, ma che ha assunto il significato di “accordo sottobanco” quando Massimo D’Alema parlò di “inciucio fra i partiti”.


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  • Giandomenico - Libro opportuno per arginare l'assalto alla nostra meravigliosa lingua. Mi auguro che venga apprezzato e costituisca un punto fermo di riferimento


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