di Gabriella Mola - foto Antonio Caradonna

Altamura e il suo Museo del vino, nato all'interno della cinquecentesca "Cantina Frrud"
ALTAMURA – Un luogo che racconta, tra le sue mura, secoli di lavoro e di passione della civiltà contadina pugliese. È la Cantina Frrud, “Museo del Vino” aperto dai trentenni Paolo Colonna e Donato Scalera in un palazzotto del centro di Altamura consacrato alla produzione del nettare degli dèi sin dal XVI secolo.

La storica attività nacque infatti nel 1572 e nell’Ottocento passò nelle mani della famiglia altamurana Ferrulli (da cui “Frrud”). Angelantonio, l’ultimo esponente della “casata” a portare avanti la produzione della popolare bevanda, smise però di lavorare alla fine degli anni 50 ed essendo senza eredi condusse l’impresa a una triste chiusura durata fino all’intuizione di Paolo e Donato.

I due hanno acquisito nel 2015 i locali della cantina per farne un’enoteca (idea poi accantonata in favore di una piccola produzione di vino). E con loro grande sorpresa, tra polvere, muffa e sporcizia hanno rinvenuto antichi torchi, attrezzi agricoli e utensili vari: “reperti” troppo preziosi per essere gettati via. Così, dopo un biennio di pulizia e meticolosi restauri, hanno dato vita a un’esposizione da ammirare su prenotazione tra le salette e la grotta sotterranea dell’edificio. Siamo andati a visitarla. (Vedi foto galleria)

Il Museo si trova al civico 18 di via Solofrano, stradina ubicata alle spalle della Cattedrale di Santa Maria Assunta. All’entrata ci accoglie Paolo, che comincia a raccontarci della sua avventura.

«Per ricostruire le vicende del posto ci siamo avvalsi delle memorie storiche del paese, che lo ricordano come un ritrovo di contadini – ci dice –. Qui infatti gli agricoltori si soffermavano a sorseggiare un bicchiere di primitivo dopo il lavoro nei campi».

Questo aneddoto ha ispirato la più caratterizzante iniziativa del museo: la degustazione durante i tour. «Grazie alla collaborazione con un coltivatore locale, Vito Calìa, siamo stati in grado di produrre il nostro vino – spiega il giovane –. Quattro etichette di primitivo firmato “Cantina Frrud” privo di trattamenti chimici, pesticidi e pratiche che snaturerebbero l’idea di tradizione e genuinità che vogliamo trasmettere».

Varchiamo ora il portone ed entriamo in una piccola corte. A destra ci sono delle scale che conducono ad abitazioni private, di fronte a noi si trova invece un secondo portone di legno sormontato da un arco sulla cui chiave di volta è incisa la già citata data di fondazione: il 1572.

Alla destra dell’ingresso ci colpisce la “bocca di lupo”, un’apertura d’areazione della cantina interrata nella quale è inserita una lunga vasca. «Come un canaletto, quest’ultima faceva confluire direttamente nelle botti sottostanti le uve pigiate qui nella corte», spiega il nostro accompagnatore.

«Siamo stati molto fortunati a ritrovare pezzi del genere così come furono lasciati (al massimo malmessi o smontati) – prosegue –, perché all'epoca le botti e gli utensili in legno, una volta dismessi, venivano utilizzati per alimentare il fuoco in inverno».

È arrivato il momento di entrare. Il piano terra è composto da due ambienti dall’aspetto semplice e rustico, col pavimento a chianche originale, dove sono conservati gli attrezzi in esposizione.


Sulla destra notiamo i tini marcati con le iniziali dell’ultimo titolare, A.F., utilizzati per la raccolta delle uve in vigna e portati in spalla. Sono di legno e molto pesanti: circa 20 chili da vuoti, quattro volte tanto una volta riempiti.

Degna di nota è la pompa manuale per irrorare i vitigni con i trattamenti previsti, come l'ossido di zolfo o il verderame. Necessitava del lavoro di due persone: una la trainava come un carretto, l'altra azionava la nebulizzazione.

Sui muri sono invece appesi grandi aratri utilizzati dai buoi oltre a zappe e attrezzi per il travaso del vino nelle grosse botti sottostanti.

In una nicchia “scavata” nel muro sono posizionate mensole con diversi oggetti di uso quotidiano, tra cui dei barattoli con indicazioni in inglese come coffee e sugar. «Sono lasciti dell’ultimo Ferrulli, noto in paese come “zio Angelantonio l'americano” – svela Paolo –. “Zio” perché era affettuoso con tutti, “americano” perché da giovane trascorse qualche anno negli States».

Nel lato opposto della stanza spadroneggia il torchio settecentesco, apparecchiatura essenziale per la vinificazione. La parte superiore è formata da quattro blocchi di castagno tenuti insieme da una struttura in ferro e sorretto ai lati da pilastri di legno. In quella sottostante c'è la grossa vite, sempre lignea, che serviva per far ruotare il torchio e premere l'uva.

I grappoli erano contenuti nei dieci fiscoli fatti di canapa intrecciata a mano, mentre la forza dell'uomo era esercitata attraverso una robusta asta. L'uva nei fiscoli rilasciava il mosto che finiva nella vasca di raccolta ai piedi del macchinario. Accanto al vecchio torchio c’è anche il “modello” idraulico, subentratogli all’inizio del 900, fatto di ghisa e ferro.

L’ultimo pezzo qui esposto è un argano a fune passante, il sistema di carrucola utilizzato per poter sollevare e spostare botti e altri oggetti pesanti nella grotta sottostante.

Accediamo quindi nell’altra stanza, che oltre a tini, botti, damigiane e gioghi custodisce suppellettili più “domestiche” come un piccolo tavolo e una panca. Su una mensolina sono riposti contenitori per olive e conserve, una pignatta per cucinare e un piatto da portata, nonché un antico prototipo di caffettiera datato 1890.

Scendiamo ora attraverso una botola nel cuore della cantina, a otto metri di profondità. Qui anche le pareti, in pietra carsica e tufo, sono suggestive: su di esse si possono persino notare gli strati delle ere geologiche attraverso le cristallizzazioni multicolori dell'acqua.

Sulle due botti settecentesche presenti, restaurate anche se inutilizzate per rispetto delle norme igieniche, campeggia, come una volta, la vasca di conferimento del mosto inserita nella già citata bocca di lupo che la collega con la corte esterna.

Sulle nostre teste pende infine un lampadario fatto coi cerchi di ferro di un tino dismesso e ornato di candele. «Quando non c’era la corrente elettrica i contadini misuravano il livello di ossigeno rimasto qui giù con l’affievolirsi della fiamma – racconta Paolo –. Il motivo? Con la fermentazione del mosto si produceva anidride carbonica ed era quindi reale il rischio di rimanere senz’aria».

Nell’ambiente vengono anche custodite le bottiglie prodotte dai due imprenditori, etichettate a mano e vendute in loco oppure online: il simbolo perfetto del connubio tra antico e moderno rappresentato dalla “Frrud”, questo affascinante luogo salvato dall’oblìo.

(Vedi galleria fotografica)


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Gabriella Mola
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  • Mario Giaconella - Spettacolo , bellissimo Articolo


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