Le storie dei profughi istriani in Puglia: «Stranieri e senza Patria»
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lunedì 27 aprile 2015
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di Katia Moro
Tante di quelle persone arrivarono in Puglia in quegli anni per fuggire alle persecuzioni ordinate dal maresciallo Tito e uno di loro, Dionisio Simone, accolto all’epoca da parenti residenti a Polignano a Mare, ha rivissuto la storia dell’esodo dall’Istria in un libro: “Le parole nostre”.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
«Una notte, nel febbraio 1947, qualcuno viene a bussare alla porta di casa nostra a Pola gridando: “Vito ti verremo a prendere”», ricorda oggi il 74enne Dionisio. Vito è suo padre e la sua colpa è quella di essere italiano e di non essere collaborazionista del nascente regime di dittatura comunista. Dopo quella minaccia la famiglia Simone decide di partire, imbarcandosi nel piroscafo “Toscana” messo a disposizione dal governo italiano. «Avevo 6 anni all’epoca – dice Dionisio – e salii su quella nave assieme a mia sorella di 7 anni, a mia madre e a mia nonna. Mio padre invece trovò posto su una nave mercantile dove riuscì a imbarcare persino il carro con gli animali».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
La famiglia Simone, giunta in Puglia, ha la fortuna di essere ospitata da propri famigliari nel paese di Polignano, non vivendo così la dura e drammatica esperienza dei campi profughi. «All’inizio però non fummo ben accolti – continua Dionisio -. A scuola i bambini ci davano dei pugni dietro la schiena e ci buttavano le pietre quando tornavamo a casa in bicicletta. Ci consideravano diversi. Poi le cose sono migliorate, anche se ancora oggi mi sento un rifugiato. In Jugoslavia siamo stati discriminati perché considerati italiani e in Italia additati come jugoslavi».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
La città di Taranto invece, come ci racconta Fulvia Siscovich, rappresentante dell'associazione nazionale Venezia Giulio-Dalmata sezione tarantina, all’epoca accolse circa 800 profughi istriani che furono ospitati in tre campi creati per l’occasione e poi ospitati nel Villaggio dei Polesani eretto nel quartiere Tamburi. Numerose sono le testimonianze di chi dopo essersi imbarcato sul “Toscana”, prese il treno che li avrebbe portati in Puglia. E anche Fulvia ci riporta i racconti delle umiliazioni subite.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
«Alla stazione di Bologna i ferrovieri si rifiutarono persino di dare ai profughi un bicchier d’acqua: li consideravano fascisti perché erano scappati dal regime comunista di Tito – dice la donna- . E quando giunsero a Taranto, in occasione delle prime elezioni politiche del 1948, nella piazza della città vennero installati dei fantocci impiccati con la scritta “polesani fascisti”. Ancora oggi, nel 2012, è accaduto che in occasione dell’inaugurazione della piazza intitolata alle vittime delle foibe, il giorno successivo sia stata distrutta la targa commemorativa».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
È profuga della Dalmazia invece, e precisamente dell’isola di Korcula, l’88enne Irma Nobilo ancora oggi residente a Bari. Sguardo fiero, occhi chiari e altezza al di sopra della media a dispetto degli acciacchi dell’età, tradiscono la sua vera origine e rievocano un’antica bellezza. Figlia di una donna di Molfetta, ha vissuto in Dalmazia sino ai 17 anni in compagnia della sorella maggiore e del resto della famiglia. Ma l’11 settembre del 1943, dopo l’armistizio e in seguito all’occupazione dei tedeschi e ai bombardamenti degli alleati, il capitano dei carabinieri chiama a raccolta gli uomini di origine italiana, circa un centinaio e dà loro solo mezz’ora di tempo per organizzarsi e partire portando via un unico pacco con lo stretto necessario per sfamarsi per tre giorni. Furono loro i primi profughi dalmati, a cui seguirono coloro che, come gli istriani, furono perseguiti da Tito dopo la fine della guerra.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
«Venimmo imbarcati su un rimorchiatore italiano. Sulle nostre teste sorvolavano aerei bombardieri e sotto di noi navigavano sottomarini – racconta Irma -. Issammo la bandiera della Croce Rossa mettendo in vista donne e bambini. Dopo due giorni arrivammo a Termoli, dove ci rifugiammo in una scuola. Il 2 novembre del ‘43 ci portarono a Bari, dove rimanemmo in stazione per tre giorni, fin quando non venimmo ospitati in alcuni appartamenti in corso Italia, da cui però fummo poi cacciati da un’altra famiglia. Ripiegammo così in una stalla di via Oberdan, con le mangiatoie e senza servizi igienici. Per sfamarci dovevamo fare una lunghissima fila fuori dal mercato del pesce in piazza del Ferrarese, dove era istituita una mensa piena di gente con i pidocchi e altre malattie. Per questo spesso preferivamo cibarci solo di un’arancia con tutta la buccia».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Per Irma però le cose a un certo punto si misero bene. Forse grazie anche alla sua bellezza così “diversa” e poco mediterranea («quando passavamo per strada ci gridavano “sono arrivate le tedesche” », ricorda la donna), a Bari trovò l’amore, quello di Armando, un barese che lavorava nel deposito dell’esercito inglese nello stadio della Vittoria e riuscì così pian piano a integrarsi nella comunità barese. Un destino il suo, poco comune a quello delle altre migliaia di rifugiati. Perché, come sottolinea con rammarico Dionisio: «Un profugo è un profugo per sempre, straniero ovunque e privo di una Patria».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
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Scritto da
Katia Moro
Katia Moro