di Massimiliano Fina

Giovanna, l'ultima ''prefica'': «Piangevamo i morti, ma a volte ci scappava una risata»
TARANTO - «Ci sforzavamo di alternare senza sosta lamenti, singhiozzi e grida a pochi passi dal defunto: non era mica facile simulare dolore per una persona che non conoscevamo». Sono le parole di Giovanna, 88enne di Taranto ed ex “prefica”: un tempo cioè si faceva pagare per partecipare e piangere platealmente ai funerali. Si tratta di un bizzarro mestiere scomparso da circa mezzo secolo e che solo poche donne ormai possono raccontare per esperienza diretta.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Le origini di questo lavoro sono incerte. Di sicuro era praticato nell'antica Grecia e tra i Romani che spesso designavano una signora per "guidare" le urla di disperazione durante le cerimonie funebri: del resto il nome di questa occupazione deriva dalla parola latina praeficere, che significa per l'appunto "mettere a capo". La ricompensa era elargita dalla famiglia del morto che in tal modo conferiva alle esequie del proprio caro un'atmosfera di disperazione quasi teatrale.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Saper piangere con maestria è stata una dote piuttosto richiesta nell'Italia meridionale più o meno fino agli anni 70. Nel capoluogo jonico spesso ci si rivolgeva al Conservatorio delle Pentite, un rifugio del borgo antico per donne sole ed ex prostitute che si erano specializzate in questa singolare mansione pur di guadagnarsi da vivere.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Fu proprio la fame ad avvicinare Giovanna alla "professione" di prefica verso la fine degli anni 50. «Ero giovanissima quando rimasi senza marito - racconta l'anziana - e avevo già cinque figli. In una situazione economica così difficile mi rimboccai le maniche e cominciai a svolgere anche i lavori più umili, senza vergognarmi. Spesso così mi ritrovavo a fare quella che nel nostro dialetto chiamavamo chiangia muerte, grazie a una mia zia esperta in materia che mi aveva insegnato tutte le tecniche da utilizzare nelle veglie funebri».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)


Già, perchè trasmettere sconforto in modo efficace non era affatto semplice. Si partiva innanzitutto facendo attenzione all'abbigliamento: abito scuro, fazzoletto in testa e un velo nero per coprire il volto. Poi si concordavano con i parenti della persona deceduta le lamentazioni da declamare durante l'estremo saluto. «Le decidevamo al momento dell'ingaggio - spiega l'attempata signora -. Eravamo in quattro a dividerci il compenso: ricevevamo soldi oppure beni di prima necessità».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Tutto a quel punto era pronto per andare in scena. «I canti e le urla di afflizione avevano lo scopo di declamare le qualità dell'individuo scomparso e dare enfasi all'abbattimento di chi gli stava attorno - prosegue la vecchietta -. Alzavamo e abbassavamo la voce di continuo, scuotevamo il capo, ci colpivamo ripetutamente il petto con le mani, battevamo con vigore i piedi per terra».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Il risultato di questa colossale recita era uno scenario che oggi sembrerebbe quantomeno grottesco. «Versare fiumi di lacrime era una cosa più o meno spontanea se la dipartita riguardava un nostro conoscente - conclude scherzando Giovanna -. Ma quando si trattava di dare l'ultimo addio a qualcuno a noi ignoto capitava che ci scappasse anche una risata. Per fortuna indossavamo il velo nero: ci ha evitato un sacco di figuracce».


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