di Francesco Sblendorio

Profughi, non ci sono solo i Cara: «Riunire le famiglie è più umano e meno pericoloso»
MILANO – Senza fare nulla durante tutto il giorno, separati dalla propria famiglia e costretti a “scappare” per poter prendere un po’ d’aria. Lo abbiamo scritto in un recente reportage: la vita dei migranti ospitati nei Cara (Centri di accoglienza per i richiedenti asilo), che attendono dal Ministero di vedersi riconosciuto lo status di rifugiato, è alquanto triste. E anche pericolosa. Perché costringere tanta gente a rimanere per mesi in uno stesso posto, spesso sovraffollato, senza dar loro notizie sul loro futuro, può portare ad atti di protesta e violenza, così come accaduto a Bari nel 2011, quando gli ospiti del Cara di Palese fuggirono dal centro e andarono a occupare fisicamente la tangenziale di Bari.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Eppure lo Sprar, il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, oltre ai Cara, autorizza anche altri tipi di centri, molto più “umani”. Ad esempio prevede che le famiglie di migranti possano essere ospitate in centri più piccoli, senza dover per forza procedere alla separazione tra uomini, donne e bambini, come avviene oggi nella maggior parte dei casi.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Nelle province di Bari e Bat ci sono 16 centri Sprar, ma sono tutti a “indirizzo ordinario”, ovvero pronti a ospitare indifferentemente famiglie, persone singole o coppie nelle stesse strutture. All’inizio dell’autunno il Comune di Bari ha promosso una via alternativa a queste forme di accoglienza, offrendo la possibilità alle famiglie baresi di dare la propria disponibilità a ospitare temporaneamente famiglie di migranti. Ottima proposta, anche se un po’ troppo sperimentale, visto che i baresi dovrebbero “inventarsi” un nuovo ruolo.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

L’ideale sarebbe invece quello di dare la possibilità di ospitare intere famiglie di profughi a comunità preparate ed esperte. In Italia questo avviene in pochi casi, come in un paese molto piccolo della provincia di Milano (che non possiamo citare per salvaguardare la privacy dei richiedenti asilo). E’ qui che lavora Silvia Mastrorillo (nella foto), 24enne di Terlizzi, esperienza di volontariato internazionale in Sri Lanka e in Africa, un master sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza e ora educatrice presso la comunità di prima accoglienza “La Tenda di Abramo”, gestita dall’organizzazione non governativa Ai.Bi (Amici dei Bambini).Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

«La comunità in cui lavoro ospita al massimo 20 persone – spiega Silvia -. Questa condizione permette a noi operatori di intervenire nel processo di integrazione dei migranti in modo più specifico su ognuno di loro, a partire dal loro vissuto, dalla loro identità, dalla loro personalità, sia come singoli che come componenti di un nucleo familiare, mettendo chiaramente sempre al centro le esigenze dei bambini. A differenza dei grandi centri la cui ospitalità è basata sulla quantità, da noi i migranti non sono solo numeri, ma storie di vita».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)


Storie come quella di Ester, una sposa bambina che a 14 anni venne data in moglie a un 50enne. Morto il marito, fu costretta a sposare il fratello di lui, che abusava di lei. O come quella di Aboubacar, fuggito dalle violenze indiscriminate della Guinea: ha attraversato il Mediterraneo su un barcone assieme a sua moglie incinta di 8 mesi, che a fine ottobre ha dato alla luce una bambina.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

«Un’accoglienza come questa – prosegue Silvia - permette di mantenere i punti di riferimento e di conservare, per quanto possibile, le tradizioni familiari. Che sono fatte anche di riti, come quello della moglie che cucina, del marito che va a conoscere la città nel quale un giorno forse la famiglia vivrà, di entrambi che preparano la colazione per i bambini. Poter condividere l’esperienza migratoria con la propria famiglia – spiega l’educatrice –genera in loro meno frustrazione rispetto ai migranti soli e il loro ruolo genitoriale li fa essere più aperti al territorio che li ospita e al rispetto delle regole, perché vogliono creare delle basi per il futuro dei loro figli».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Non è un caso del resto che la quasi totalità dei reati commessi da immigrati in Italia sia opera di giovani maschi soli e che il tasso di criminalità crolli quando invece questi riescono a vivere nel nostro Paese con le proprie famiglie.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

La tutela della dimensione familiare passa anche da una precisa divisione dei compiti. «Ognuno ha il suo ruolo – continua Silvia – nella cucina, nelle pulizie, nella sistemazione delle stanze. E si è adottato fin da subito il sistema della spesa partecipata, tenendo presenti il rispetto delle loro tradizioni, ma anche della necessità di abituarli al cibo italiano e a fare economia, in vista di un futuro in cui dovranno provvedere a sé stessi. Sempre a questo scopo, gli ospiti del centro hanno iniziato a studiare l’italiano».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

I piccoli numeri e la famiglia sembrano quindi il mix vincente di un’accoglienza capace di centrare realmente l’obiettivo dell’integrazione. Ma quanto costa allo Stato un sistema di questo tipo? «Esattamente quanto l’accoglienza fondata sui grandi numeri – afferma Diego Moretti, responsabile del centro -. La retta giornaliera che si riceve per ciascun ospite della struttura Sprar, sia essa un Cara o una piccola comunità per famiglie, è di 34,50 euro».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Ma allora se allo Stato un’accoglienza del genere costa uguale, perché non abbandonare l’idea del Cara per dar spazio alle piccole comunità? «Perché le Istituzioni avendo migliaia di migranti da collocare preferiscono la quantità alla qualità – risponde Moretti -. Se c’è un’associazione che in un colpo solo si “prende” centinaia di migranti, lo Stato non dice certo di no. E non si cura certo della misera vita a cui andranno incontro i richiedenti asilo».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
 


© RIPRODUZIONE RISERVATA Barinedita



Francesco Sblendorio
Scritto da

Lascia un commento


Powered by Netboom
BARIREPORT s.a.s., Partita IVA 07355350724
Copyright BARIREPORT s.a.s. All rights reserved - Tutte le fotografie recanti il logo di Barinedita sono state commissionate da BARIREPORT s.a.s. che ne detiene i Diritti d'Autore e sono state prodotte nell'anno 2012 e seguenti (tranne che non vi sia uno specifico anno di scatto riportato)