di Marianna Colasanto e Katia Moro

Bari, i medici coraggio: «Lasciamo gli agi per curare in zone di frontiera»
BARI – Lasciare la sicurezza e l'agio del proprio posto di lavoro, della propria casa, dei propri amici, per andare a curare persone in difficoltà in zone di frontiera, dove la povertà e la guerra la fanno da padrone. E’ la scelta compiuta da molti medici coraggiosi, che hanno deciso di prestare la propria professionalità ad associazioni umanitarie come Emergency o il Cuamm. Noi abbiamo ascoltato il racconto dei pugliesi Michele, Maria Luigia e Federica. (Vedi foto galleria)

«Ho conosciuto Emergency tramite un’intervista fatta al suo fondatore, Gino Strada – racconta il 54enne anestesista barese Michele Sisto (nella foto)- e da quel momento non ho più avuto dubbi: dovevo partire e realizzare concretamente l’ideale di professionalità medica in cui credo, al servizio di chi non ha mezzi e strumenti per garantirsi il diritto fondamentale alla salute».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Il suo primo passo è stato contattare l’associazione e richiedere un colloquio, durante il quale gli è stata illustrata la complessità del loro lavoro in zone difficili della Terra e i rischi a cui sarebbe andato incontro. Poi è seguito un incontro con una psicologa e infine una prova in lingua inglese. Acquisita l’idoneità è stato iscritto in una lista che sarebbe stata utilizzata da Emergency in caso di necessità.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

E quella necessità è arrivata per la prima volta per lui nel 2005. Così Michele, ottenuta un’aspettativa non retribuita dall’Ospedale Pediatrico Giovanni XXIII di Bari, ha salutato la sua famiglia e si è ritrovato a fare il medico a Lashkar Gah, vicino a Kandahar, paese a sud di un Afghanistan in piena guerra contro i talebani.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

«La situazione era drammatica e molto rischiosa - racconta l’anestesista -. Ogni mattina degli autisti ci conducevano sotto scorta in ospedale seguendo tutte le volte un percorso diverso e una volta nella struttura non ne uscivamo per tutto il giorno, sia per garantire assistenza continua sia perché era sconsigliabile allontanarsi».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

E Michele in Afghanistan ne ha viste tante. «Ho ancora negli occhi l’immagine di un bambino arrivato da noi con le proprie viscere avvolte in un turbante – ricorda -. Il giorno dopo però era già seduto sul letto senza emettere un lamento. E tutti, proprio tutti, erano molto riconoscenti nei nostri confronti, talebani e soldati, gli uni di fronte agli altri, accomunati dallo stesso bisogno di cure mediche».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Il medico dopo 4 mesi è dovuto ritornare a Bari, perché il suo ospedale di provenienza non gli ha rinnovato il permesso. Ma dopo anni, nel 2014, è riuscito a ripartire, ma questa volta non per un Paese dilaniato dalla guerra ma per uno martoriato dalla povertà: la Repubblica del Sudan. Nella capitale, a Khartoum, Emergency ha creato il Centro Salam di cardiochirurgia: una cattedrale nel deserto, l’unica struttura specializzata gratuita nel paese.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

A seguire le sue orme c’era anche la 34enne ostunese Maria Luigia Spada, che l’anno scorso ha deciso di concludere il suo ciclo di studi conseguito presso la facoltà di medicina di Bari, con un tirocinio in anestesia nel Salam di Khartoum. «Quando ho proposto al mio professore l’intenzione di svolgere il tirocinio in Sudan con Emergency non ne è stato affatto contento – afferma Maria Luigia -. Forse pensava che non sarebbe stato ugualmente formativo. Ma si sbagliava. Io l’ho scelto proprio perché garantisce un alto livello di specializzazione oltre che una forte esperienza umana e una lezione di responsabilità sociale».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)


In Sudan Maria Luigia viveva con gli altri medici in ospedale: si poteva spostare solo con il mezzo messo a disposizione da Emergency e dovunque i dottori andassero erano identificati dalla gente del posto come i “medici del cuore” verso i quali c’era affetto e riconoscenza. «Una volta siamo stati fuori dalla città di Khartoum lì dove non avevano mai visto un bianco – racconta Maria Luigia -. Siamo diventati un fenomeno da baraccone e tutti ci indicavano straniti additando soprattutto la singolarità dei nostri capelli lisci. Ma non ci siamo mai sentiti in pericolo».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

La giovane dottoressa ha in realtà vissuto anche un’esperienza negativa: la malaria. E così è stata amorevolmente curata e coccolata dalle cuoche sudanesi dell’ospedale che le hanno fatto un po’ da mamme e a cui lei, in cambio, ha insegnato a cucinare la pasta.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Animata dagli stessi ideali e principi si è imbarcata per la sua esperienza estrema in Africa anche Federica Laterza, 32enne barese specializzanda in Ginecologia al Policlinico di Bari. Federica scopre il Cuamm, “Medici con l’Africa”, che dal 1950 si occupa di promozione e tutela della salute delle popolazioni africane. Si innamora del progetto e chiede di poter partire.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

«Per poter partire – ci racconta la giovane - ho dovuto seguire un corso di un anno che si tiene a Padova, sede dell’associazione e poco prima di lasciare l’Italia sono stata sottoposta a una serie di vaccini, per la malaria, il tifo, il tetano, la tubercolosi». La destinazione di Federica è infatti la poverissima Angola, che raggiunge nel novembre del 2014.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Si stabilisce a Chulo, un villaggio di capanne di circa mille anime, costituito da una strada con in fondo una chiesa. L’ospedale si trova a destra della via, mentre a sinistra si trova il “quintale”, ovvero un altro piccolo villaggio costituito da cinque case per i medici, un piccolo centro e un chioschetto. Lì, per 6 mesi, cura e aiuta persone che per vivere cacciano come uomini primitivi, che dormono in capanne nel bel mezzo della Savana e che bevono l’acqua delle pozzanghere.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

«I mezzi che avevamo a disposizione erano minimi – afferma Federica -. Ho visto morire delle persone perché non potevamo compiere esami del sangue completi e quindi fare diagnosi precise. Ma in ospedale siamo però riusciti a far partorire servendoci di un semplice stetoscopio, uno strumento che non consente di avere un costante monitoraggio del battito del feto e non permette quindi di valutare se ad esempio il parto è a rischio ed è necessario un taglio cesareo. Eppure abbiamo comunque fatto nascere dei bambini».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

«Durante il periodo in cui sono stata in Africa – confessa la giovane - ci sono stati spesso momenti in cui ho pensato di non potercela fare: mi trovavo sola con me stessa e venivo assalita dalla nostalgia di casa. A volte mi mancavano le cose più semplici, come una passeggiata con le amiche o un gelato in riva al mare. Ma ho resistito, lì c’era bisogno di me».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

E ora Federica, dopo appena un mese da suo rientro, vorrebbe già ritornare in Angola. «Ho saputo che la situazione a Chulo è precipitata – dice -. E’ rimasto un solo medico e non c’è quasi più acqua: quella poca rimasta nei pozzi l’hanno rubata e senza acqua si rischia una vera epidemia di colera. E’ arrivato il momento di ripartire».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

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