di Eva Signorile

Bari, a rischio i maestosi eucalipti di Picone: «Attaccati da un insetto alieno»
BARI – Da decenni se ne stanno ritti e ordinati lungo viale Salandra e viale Orazio Flacco, amati per le loro chiome ombreggianti, la loro maestosità e il caratteristico profumo. Parliamo degli eucalipti del quartiere Picone: simboli del rione barese che da qualche tempo appaiono però in evidente sofferenza a causa di una massiccia infestazione parassitaria.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Il loro elegante fogliame lanceolato, quasi argenteo, appare infatti seriamente minacciato: su di esso compaiono tante piccole semisfere di un colore perlescente che varia dal bianco al crema. (Vedi foto galleria)

«Si tratta con ogni probabilità di un'infestazione di Glycaspis brimblecombei, la cosiddetta Psilla dell'eucalipto" - afferma Massimiliano Morelli, 38enne ricercatore dell'Istituto per la Protezione sostenibile delle piante del Cnr di Bari - . E' un insetto alieno, importato dall'Australia, ma presente nel Sud Italia già da diversi anni, con le prime segnalazioni che datano 2010. La particolarità e la dannosità dell'insetto è proprio in quelle formazioni cerose che si trovano sulle foglie. Sono note come follicoli (in inglese "lerps", da qui il nome comune dell'insetto "lerp psyllid", psilla dei follicoli) e vengono secrete dall'insetto per proteggere le sue forme giovanili».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Le bolle occludono i pori delle foglie fino a farle seccare: più ne sono attaccate, più la pianta è a rischio. Quella barese è purtroppo un'infestazione importante, che se non curata per tempo potrebbe portare anche alla morte degli alberi. E tutto questo in una città già poco verde come il capoluogo pugliese.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Siamo dunque andati a farci un giro tra le vie principali di Picone: il fenomeno è talmente vistoso da potersi notare anche a occhio nudo. Non sembra esserci chioma che ne sia immune. Anche il “famoso” eucalipto di via De Tullio, che dal Dopoguerra funge da spartitraffico naturale della strada, è stato aggredito dagli insetti, così come tutti quelli di viale Salandra e di viale Orazio Flacco, compreso il “guardiano” situato di fronte all’ex Centrale del Latte.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)


Sulla parte di viale Orazio Flacco che costeggia l’istituto oncologico “Giovanni Paolo II” (ex Cotugno) si presenta lo scenario più drammatico. Probabilmente l’attacco è iniziato da qui, dove oggi le galle hanno di fatto preso possesso degli alberi. Molte foglie stanno cambiando colore virando al rossastro, altre hanno una puntinatura scura, alcune si sono accartocciate, mentre altre ancora si sono già seccate. Ad essere assaltata è stata anche l’enorme pianta che adorna la caratteristica costruzione “a fungo” sede di una nota rosticceria.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Ma c’è un modo per salvare questi splendidi alberi che si dice siano stati piantati come omaggio dagli Alleati prima di lasciare Bari?

«Un rimedio c’è – afferma Carella -: si può intervenire con rimedi biologici, utilizzando predatori naturali, ad esempio alcuni imenotteri che sono ghiotti dei parassiti. Si tratta però di una “guerra” che va condotta attraverso un confronto tra le istituzioni e il mondo scientifico, perché l’infestazione è davvero ragguardevole».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Purtroppo però il Comune di Bari non sembra essere a conoscenza del fenomeno. L’assessore con delega al Verde Pubblico, Giuseppe Galasso, ci confida infatti di non aver ricevuto alcuna segnalazione in merito da parte della “Ripartizione giardini”, anche se si dice disponibile a un immediato sopralluogo.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Nel frattempo un segno di speranza ci viene dagli stessi eucalipti. Alcune piante hanno avuto la forza di fiorire, quasi a sfidare l'insetto che le sta minacciando e poi c’è qualche “buon” emittero che in attesa delle istituzioni ha già cominciato a banchettare con le famigerate galle. Perché, per fortuna, la natura ha tempi di reazione più rapidi di quelli umani.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

(Vedi galleria fotografica)


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Eva Signorile
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  • Gianfranco Visimberga - Ciò che mi ha attirato di questo gruppo "editoriale" non è la sola Ricerca dl'inedito quanto il far scoprire situazioni invisibili o poco rintracciabili ad occhio nudo, come la costa di torre amare, la statua di Piccinni e per ultimo quella natura che ha bisogno di continue attenzioni e sorveglianza. Continuare così. Una piccola osservazione : scorrendo le vostre gallerie fotografiche, riferendomi alle chiese parrocchiali, ho notato che non avete menzionata la chiesa di San Francesco a Japigia, una fra le più grandi e "moderne" di Bari, risalendo la sua costruzione e inaugurazione negli anni sessanta (forse 1964).La stessa chiesa viene presentata nelle foto del rione Japigia, ma senza quell'approfondimento che merita.
  • BARINEDITA - Grazie mille per i complimenti Gianfranco! Però la chiesa è citata nell'articolo. Saluti https://www.barinedita.it/storie-e-interviste/n2708-dal-redentore-a-santa-fara-da-goldrake-a-don-guanella--le-57-chiese-parrocchiali-di-bari
  • Vito Petino - Sotto quegli alberi maestosi ci ho passato buona parte della vita... 1951 BARI CHE NON C'E' PIU'- FESTA DI MATRIMONIO D'ALTRI TEMPI, DALLA MADONNELLA AL PICONE, PASSANDO PER SAN PASQUALE E CARRASSI Ben volentieri racconto un episodio che da ragazzino mi ha visto coinvolto per la prima volta. Sarò lungo. Ma senza i particolari i ricordi sono sciapi. Se riuscirete a sopportarmi, sarete meglio di Giobbe. Si sposava Tina, la più grande delle mie cugine dopo Marietta di zia Caterina, già sposata e con figli. Mia madre era la sorella di Angelo, il padre della sposa. E a quell'epoca c'era una tradizione particolare da rispettare per la festa di matrimonio di famiglie non molto agiate, dividerlo in tre fasi. Cerimonia religiosa in Chiesa, pranzo in casa della sposa, e festa danzante in un locale alla strada con tante sedie e qualche tavolino a strisce in legno, forniti dallo stesso proprietario del locale. Più che locale uno stanzone. Ai parenti più stretti l'invito era esteso a tutt'e tre le fasi; i parenti alla lontana e amici venivano esclusi solo dalla fase del pranzo a casa della sposa. A quel tempo certi stanzoni, addobbati solo con quegli arredi dozzinali, venivano chiamati a mo’ di sfottò “Sala Giuseppina”, nome di una delle sale più lussuose di Bari, la nota Sala Giuseppina all’interno del Kursaal Santalucia, cinema che prendeva il nome dal suo proprietario, l’avvocato Ugo Santalucia. Zio Angelo riuscì ad affittare uno stanzone simile a piano strada del vecchio edificio, con due altri piani superiori, situato sulla destra del tratto di via Alessandro Volta dove oggi, scendendo, c'è il semaforo che divide viale Unità d'Italia da quello della Repubblica, che all’epoca non esistevano proprio. La via Volta era un rettifilo continuo con piazzale Locchi e la via Antonio Meucci; il tratto unico iniziava da corso Sicilia (ora Benedetto Croce) per terminare a via Re David, davanti alla facciata della vecchia SICA, fabbrica di dolciumi e affini. Il prolungamento di via Postiglione sino alla via Meucci era di là da progettarsi. La strada iniziava da via Amendola e finiva contro il muro di recinzione del campo da calcio del Cirillo sulla via Dei Mille. Parte di quel fondo campo del convitto è ora il tratto più largo del prolungamento di via Postiglione fino a via Re David. A questo punto non posso fare a meno di andare fuori seminato, ma devo descrivere un’attività che si svolgeva di fronte a quel locale per matrimoni, sempre all’angolo del semaforo di via Volta; un’attività che occupava tutta l’area, ora a giardino sino a via Enrico Toti, e parte della corsia a salire di viale Unità d’Italia. Nel vecchio muro di cinta in tufi su via Volta c’era un grande cancello in ferro per accedere all’interno di una fabbrichetta per la produzione di calce per l’edilizia e la vendita di altro materiale da costruzione. Anni dopo mi son servito da quell’azienda per la mia attività di geometra. Fine della parentesi. Un’orchestrina alla buona con cantante allietava le danze. Nel nostro caso quest'ultima spesa i miei zii la risparmiarono. C’era zio Giovanni, il marito di zia Caterina, la sorella grande di zio Angelo e Mamma, che sapeva suonare a meraviglia la sua rigonetta in legno intarsiato, come tante volte aveva fatto per altre feste di famiglia nella sua piccola masseria a San Francesco all’Arena, un terreno che da sotto lo stadio arrivava sino alla Pensilina del capolinea della filovia 5, piazza Massari Lido, proprio di fronte all’ingresso della spiaggia che a quel tempo era situato nel muro di cinta del lido, nel tratto a 45 gradi alla confluenza delle vie Umberto Giordano e Verdi. Oltre la rigonetta di zio Giovanni, c'era la voce inarrivabile di Babbo, che cantava senza bisogno di nessuno strumento elettronico. Non c’è stata nipote che si sia sposata senza le serenate di mio padre. - “No, papà, p candà vlim z’ Frangh”, dicevano tutte. Voce che già in precedenza era servita a incantare mia madre, tra un lancio di cioccolatini e l'altro, quando la portò via da casa a soli 15 anni per la solita fuga d'amore. Ma questa è un'altra storia. Ecco, ci sono cascato di nuovo e mi sono dilungato fuori tema. Ai parenti un po' più alla larga e agli amici, come ho detto, nei matrimoni di quel tempo non veniva esteso l'invito a pranzo, noi invece partecipavamo alla festa per tutto il giorno. Dunque, in quel giugno del 1951 abitavamo in via Carulli ad angolo con via Abbrescia, la strada del mercato scoperto giornaliero. L'abitazione della sposa era alle case popolari di viale Orazio Flacco. Babbo si era procurata una carrozza a nolo la sera prima, di quelle a un tiro soltanto, nera e decapottabile, col cocchiere davanti in alto, all’esterno della cabina passeggeri, nella sua divisa grigio scuro con garofano bianco all’occhiello in occasione di matrimoni, e il frustino in mano. La mattina alle 7 e mezza era sotto casa. Ricordo le discussioni degli ultimi giorni prima del matrimonio. - Scus, Rosa, ci’ù madrmogn iè alle dic e mmenz, ci’ama sci affà dall’ott. - E tu so ditt ca Tin vol che l’ama vistì jì, Catarin e la mamm. Com iè, u sa che la sim cr-sciut nu. La mamma della sposa era zia Marietta l’andriese, per non confonderla con tante altre Mariette di famiglia. Iaaà, fece il cocchiere, e il cavallo baio si mosse. Mio padre sedeva a cassetta col cocchiere per meglio indicargli la strada; all’interno sedeva mia madre con in braccio Viruccia, la nostra sorellina di quasi due anni. Io e mio fratello Lilli, di un anno più piccolo, affacciati al finestrino ci divertivamo, come fosse uno schermo del cinema in miniatura, a vedere il passaggio di gente e cose. E mentre si andava, lo scenario cambiava di continuo. La carrozzella rumoreggiò sobbalzando sulle grandi basole nere di via Carulli, e traballando girò a sinistra, scese sotto il ponte di Sant’Antonio, evitando i binari del tram per Carbonara- Ceglie. Passò la vecchia stazione del dazio all’altezza del monumentale ponte pedonale di corso Cavour, sotto cui passavano i binari di due Ferrovie, quella dello Stato, e quella dove lavorava Babbo, la Suddest. Prima di proseguire per l’Estramurale, il forte olezzo di salumi ma soprattutto di formaggi ci raggiunse in carrozza dai depositi di grossisti lungo gli isolati alla nostra sinistra. All’altezza di via Salandra il cocchiere la imboccò per poi giungere nel piazzale del Policlinico, girandovi attorno. Quel tratto lo percorremmo quasi a passo d’uomo. Il povero cavallo dovette fare una fatica doppia per trainare con affanno la carrozza e sei persone in salita. Infilato il primo tratto di viale Orazio Flacco e superato l’isolato del Villaggio del Fanciullo, girò a sinistra nella via non ancora Petrera, ma seconda traversa Orazio Flacco, che terminava davanti a una masseria e relativo fondo agricolo, dove spesso in altre occasioni Mamma e la stessa zia Marietta ci portavano di primo mattino a bere latte caldo caldo appena munto. Proprio di fronte alla masseria c’è l’edificio a forma di “n”, penultima di quella parola a cinque lettere che il regime non aveva potuto completare, fermandosi alla quarta, appunto quella enne dell’ultima palazzina delle case popolari del Picone. Regime ormai stecchito in sala mortuaria per la felicità di zio Angelo, che aveva combattuto quella dittatura partecipando attivamente alla guerra civile spagnola col suo fazzoletto rosso sempre al collo, che mai tolse anche dopo. Al terzo portone a sinistra, ultimo piano era la casa della sposa. Scendemmo tutti in ghingheri dalla carrozza, mio padre pagò il cocchiere. E salimmo tutti, anche se io e mio fratello volevamo restare giù a giocare come altre volte avevamo fatto. - Dove andate. Subito sopra davanti a me, prima che vi combinate come due porcellini. Disse mia madre, strattonandoci col braccio libero e Viruccia nell’altro e indicandoci la via lungo le scale, cercando però di non sgualcire le nuove camicie immacolate. Da quando l’anno di differenza tra me e mio fratello non si notava più, mia madre aveva preso l’abitudine di vestirci con abiti uguali anche nei giorni normali, tanto da essere sfottuti dai compagni “l fratell pallin”. Avevamo scarpe e calzini corti bianchi, pantaloncini grigio chiaro sopra il ginocchio e camicie bianche. Viruccia aveva un completino bianco leggero per una bimba di dieci mesi. Mamma un vestito di seta a fiori su fondo blu, un largo cappello blu con veletta e scarpe pure blu. Mio padre un abito blu con cravatta dello stesso colore sulla camicia bianca, scarpe nere e nuove come tutti gli altri della famiglia. Acquisti fatti con i buoni della Suddest che mia madre utilizzava nei negozi La Patriottica, Bottegone, Santagostino e Cippone, somme che poi l'amministrazione ferroviaria detraeva dallo stipendio di Babbo un tot al mese. Appena in casa degli zii, mia madre sparì nella stanza da letto con Tina, zia Marietta e zia Caterina. L’abitazione non era tanto grande, solo due stanze da letto e un soggiorno cucina, oltre il bagno. Gli uomini occuparono il soggiorno per discutere e i miei cugini grandi a dare gli ultimi ritocchi agli addobbi floreali nelle scale e davanti al portone. Il pavimento dell’atrio era ricoperto da una guida rossa, partendo dal marciapiede, lungo i tre gradini d’accesso al portone, per poi terminare sulla prima rampa del piano rialzato. Io e Lilli come bestioline in gabbia, pur con lo sportellino aperto, non azzardavamo ad uscire. L’occhio attento di mio padre non ci lasciava un attimo. E con Babbo non si scherzava. Quando la porta si aprì e uscirono Mamma zie e la sposa che mai avevo vista così bella, i più contenti fummo noi, finalmente liberi almeno di muoverci. Mia madre ci riprese per mano. Ririna, sorella della sposa che aveva in braccio Viruccia, e zia Caterina ci seguirono. Subito dietro mio padre, zio Giovanni e tutti i cugini e le cugine. Per ultimi a chiudere il corteo che scendeva le scale, Zio Angelo con la sposa al braccio, Tina, la sua primogenita. Altri parenti, amici, conoscenti e vicini erano chi assiepati fuori dal portone “per vedere la sposa”, e chi già per strada verso la Chiesa di San Francesco da Paola in viale Ennio. Davanti al portone era pronta ad accogliere la sposa e il suo papà una Fiat 1900 color crema che Gino, il fidanzato di Ririna, era riuscito ad avere in prestito da un amico noleggiatore. Prima che la sposa scendesse Gino aveva fatto due viaggi verso la Chiesa per trasportare i parenti più anziani che non ce l’avrebbero fatta a piedi. La più anziana di tutti, col marito, era zia Marietta la grande con i suoi 90 anni lucidissimi, sorella di mio nonno materno, Michele, padre di zia Caterina, zio Angelo e Mamma. Appena sulla soglia del portone, Tina e zio Angelo furono accolti da un battimani generale. Scesero i tre gradini dal portone al marciapiede e si accomodarono in macchina sul sedile posteriore. Gino era alla guida. Nel frattempo Ririna, che stava per sedersi accanto a Gino, discuteva con mia madre che voleva portarsi in braccio Viruccia, a piedi, sino alla Chiesa, mentre Babbo avrebbe preso noi. - Lassl a mme la pccnenn, z’ Rosé, la vid che s’è addormendat, non la sim d-sc-tann. T’ada stangà sin alla Chis alla ppet. Disse Ririna a Mamma convincendola del tutto. Arrivammo in Chiesa poco prima dell’auto, che Gino aveva guidato apposta a passo d’uomo. Ci sistemammo con parenti e amici nelle panche rispettando la tradizionale suddivisione. A sinistra, in direzione dello sposo sull’inginocchiatoio, i parenti e conoscenti della sposa; a destra quelli dello sposo. Tina e zio Angelo entrarono accolti da un brusio ansioso. Nino aspettava che zio Angelo gli consegnasse la sposa sull’altare. Le prese con le mani il braccio sinistro e la fece accomodare sulla panca degli sposi davanti all’inginocchiatoio alla sua destra. Entrò il prete dalla sacrestia con due chierichetti, che si misero ai lati dell’altare pronti a servire. Il sacerdote si avvicinò agli sposi e, alzandoci tutti, lo imitammo facendoci il segno della croce. Messa, formula matrimoniale per i due sì incrociati. Benedizione degli anelli. Pianti di mamme e zie, soffiate di naso degli uomini più sensibili. Firme sul registro di sposi e testimoni. Uscita dalla chiesa con riso e confetti lanciati sugli sposi. Foto di circostanza a completare quelle fatte in Chiesa. Impediti da mia madre, non potemmo andare con gli altri ragazzini estranei a raccogliere confetti anche sotto il marciapiede. Gli auguri di tutti i presenti. Saluto dei parenti alla lontana e degli amici per l’arrivederci alla festa serale. Mentre si svolgevano tutti questi convenevoli, Gino riportò in anticipo a casa della sposa i parenti più anziani invitati a pranzo. Tornato in tempo accompagnò sposi e fotografo in giro per le foto ricordo. Tutti gli invitati a pranzo rifacemmo il cammino a ritroso. Saliti in casa degli zii, le donne, cambiate d’abito, si dettero da fare in cucina per preparare il pranzo. Orecchiette al ragù di cavallino, tocchetti di carne arrosto fatta sulla fornacella a carboni della cucina in muratura, salumi latticini e formaggi, frutta caffè e paste dolci con liquori vari. S’allungò il tavolo apribile per far sedere tutti gli ospiti grandi, e su un altro più stretto ma lungo ci accomodammo noi bambini nell’ingresso e lungo il corridoio, dove una finestrella dava luce all’interno dalle scale. Quando il primo era quasi pronto, dalla strada il frastuono di voci gioiose annunciò l’arrivo dell’auto con gli sposi. Mio padre scese piazzandosi al secondo piano e, quando gli sposi furono sulla rampa del pianerottolo dov’era lui, spiegò tutta la sua voce potente, senza aiuto di amplificatori, per la serenata in onore di Tina. Gli sposi si fermarono incantati a metà rampa. I parenti affacciati dal piano superiore erano emozionati. E Babbo intonò uno dei suoi cavalli di battaglia. “Non ti scordar di me, la vita mia legata è a te. Io t’amo sempre più, il sogno mio rimani tu …” Lacrime di chi era più giù e pianti che scendevano dall’alto. Tina e Nino s’abbracciarono piangendo davanti a mio padre più in alto. Anche noi più piccoli eravamo emozionati a quella voce, pur conoscendola sin dal primo momento di vita (alla mia nascita mio padre intonò “Una strada nel bosco”, a mio fratello una vecchia canzone di quand’era soldato “Vecchio scarpone”, a mia sorella “Serenata Celeste”). Babbo stesso si sentì travolto da quelle lacrime d’emozione, ma non lo dette a vedere come suo solito. Gli sposi entrarono finalmente in casa accolti da grida augurali, abbracci, e ancora qualche lacrima degli zii più anziani. Tina e Nino si cambiarono con abiti più pratici e si cominciò il pranzo. Alla fine le donne si sistemarono alla meglio per riposarsi prima della fatica serale. Gli uomini che abitavano più vicino andarono a riposare a casa, i cugini più giovani in giro per poi raggiungere la sala della festa, dove mio padre ci disse che si sarebbe fatto trovare, dopo essersi riposato a casa. E finalmente la sera alle 8 ci avviammo tutti verso la sala con la solita spola dell’auto che accompagnò chi non ce la faceva a piedi. Gli zii più anziani erano tornati a casa sfiniti. Tutti gli altri c’incamminammo a destra verso viale Orazio Flacco. A sinistra non c’erano strade ma solo campagna. Girammo, passando davanti al Villaggio del Fanciullo, per percorrere via Scipione l’Africano e poi via Pasubio sino al termine, davanti alla Chiesa Russa. Svoltammo a sinistra su corso Sicilia, e dopo tre, quattro isolati, a destra per via Volta. A cento metri circa c’era la sala Giuseppina dei poveri. Là trovammo Babbo che era arrivato con la sua Atala, ora in mio possesso. La legò con catena e lucchetto a un palo della luce stradale davanti alla sala. Entrati, sedie e tavolini pieghevoli erano aperti. Le sedie contro le pareti libere intorno allo stanzone. Tre tavolini erano uniti e coperti con tovaglie bianche in fondo allo stanzone con dietro una tenda di tessuto bianco che prendeva tutta la parete e che faceva da separè con uno spazio dietro dove erano stati sistemanti da un lato tanti “gallettoni” con ghiaccio per le bevande, birra, vino, liquori. Su due tavolini uniti dall’altro lato, panini in grande quantità da farcire con ragù di “brasciole” di cavallino preparate in grande quantità a casa insieme al pranzo, provolone, mortadella, prosciutti, latticini, tonno con capperi. Altri tavolini con paste dolci e pasticcini secchi, torta e bomboniere con 5 confetti, il cui numero seppi che era stato stabilito dal regime fascista per incrementare la popolazione, con una previsione propiziatrice per almeno 5 nascite. La parte centrale dello stanzone era libera per le danze. In un angolo zio Giovanni con la sua rigonetta in legno intarsiato a fare musica d’accompagnamento a Babbo che cantava. Ogni quattro, cinque canzoni si fermavano le danze e si passava a servire bevande e cibo che, una volta preparati su guantiere, venivano appoggiati sui tre tavolini uniti con tovaglie bianche sul davanti della tenda bianca che faceva da separè. Saziati in parte, gli ospiti più giovani riprendevano a ballare. E così di seguito, sino alla consegna delle bomboniere, ultimo atto consueto di ogni matrimonio. Finita la festa, alle 5 del mattino ognuno tornò a casa a piedi, l’auto era andata via qualche ora prima accompagnando i più anziani. E qui comincia l’avventura di mio padre con la corsa in bici per riportare a casa la sua nidiata stanca, proteggendola per tutto il tragitto. Davanti al locale mise in canna Mamma con Viruccia in braccio, lasciando noi due a piedi e raccomandandomi di tenere Lilli per mano e di guardare sempre sin dove arrivava lui con la bici. Lo vedemmo fermarsi all’inizio di piazzale Locchi, far scendere mia madre con la nostra sorellina in braccio che si avviarono a piedi su via Meucci. Babbo tornò indietro caricò me e Lilli in bici e dopo aver superato Mamma con la bambina si fermò per farci scendere proprio sul marciapiede della Sica. Mio padre si fermava in punti da cui era possibile tenere sempre sotto il suo sguardo sia i suoi due cuccioli dietro che moglie e figlia davanti, senza mai perdere d’occhio tutti e quattro. Dalla Sica tornò indietro riprese mia madre e la bambina, ci superò sulla via Re David fermandosi presso il cinema Odeon. E così per tutta via Re David sino alla discesa per il sottovia di sant’Antonio. Da quel punto sino alla caserma Picca, dalla caserma sino all’angolo con via Carulli. Poi tutta una tirata col suo andirivieni a caricarci e farci scendere in alternanza sin giù al portone di casa al numero 114 di via Carulli. Appena in casa crollammo tutti sui letti. Ma quella storia ebbe un seguito lieto. Nove mesi dopo, il 25 marzo del 52 Tina e Nino ebbero Stellina la loro prima figlia. Ma la cosa più sorprendente fu che il 31 marzo, sei giorni dopo, anche ai miei nacque Nico, il nostro piccolo fratellino che fece tutti felici. Sorprendente sino a un certo punto. Mia madre del 20 aveva appena otto anni più della nipote Tina. E qui finisce un ricordo che finché la capa m’accompagna ricorderò sempre. E grazie a voi per avermi sopportato, ora che l’ho scritto, anche se la capa non mi accompagnerà (foto d'epoca di quella festa avventurosa ne avevo poche; ne avevo però due del periodo in cui la Sica occludeva via Re David con la sua imponente facciata e la grande scritta luminosa SICA Industria Dolciaria e Affini; l'altra della via Postiglione che sbatteva il suo percorso contro il muro del Convitto Cirillo, ma non riesco a trovarle) …


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