di Marco Montrone

Come si scrive il dialetto barese? «Il segreto è "fotografare il suono con le orecchie"»
BARI – Come si scrive il dialetto barese? È una domanda che ci facciamo spesso, ogni qualvolta dobbiamo riportare su carta i suoni del vernacolo.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Perché a Bari non c’è mai stato un modo univoco di trascrivere la lingua del popolo. A differenza di città come Napoli, Roma o Venezia, che vantano una tradizione letteraria importante alle spalle (si pensi a De Filippo, a Trilussa o a Goldoni), il capoluogo pugliese non ha mai infatti avuto un “faro”, un punto di riferimento imprescindibile che indicasse il giusto modo di tradurre il dialetto. 

Ci sono stati comunque dei tentativi, come quello operato nella seconda metà del secolo scorso dallo scrittore Alfredo Giovine, il quale cercò di stabilire delle regole che potessero valere per tutti. Ma lui stesso definì il suo lavoro “migliorabile da parte delle generazioni successive”.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Generazioni successive che si sono però divise su diversi aspetti. Dagli accenti al raddoppio delle consonanti passando per le vocali finali, ogni “scuola di pensiero” tende a fornire un’interpretazione diversa sulla resa dei suoni. Ad esempio la frase “che vuoi?” c’è chi la trascrive “ce uè”, chi “c’ uè” e chi ancora “c uè”. Insomma, non c’è certezza.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Per fare chiarezza abbiamo quindi chiesto un parere a un esperto super partes: Maria Carosella, docente di Dialettologia italiana presso l’Università degli Studi di Bari.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Professoressa, c’è un modo “giusto” per scrivere il dialetto barese?

L’unico modo corretto sarebbe quello di usare un alfabeto fonetico come quello Internazionale, ma per rendere fruibile il testo anche ai non addetti ai lavori è necessario trovare degli espedienti grafici. Un buon metodo è quello di “fotografare il suono con le orecchie”. Spesso ai miei studenti dico di ascoltare una parola chiudendo gli occhi: gliela faccio pronunciare e infine chiedo loro di “sentire” ciò che hanno detto, per poi trascriverla al meglio su carta.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)


Questo metodo però conduce a un allontanamento dalle regole della grafia italiana.

Certo, perché nel caso della trascrizione vernacolare le regole grafiche dell’italiano non valgono più. Pur di rendere il suono si possono utilzzare delle grafie semi-fonetiche in cui si inseriscono dei piccoli espedienti consolidati. Ad esempio stè ddò (sta qui) si può scrivere con due “d”, per far capire che ci troviamo davanti a un raddoppiamento fono-sintattico. Se il timbro è più intenso perché non dovrei mettere due consonanti solo perché l’italiano non permette di porle in posizione iniziale?

Parliamo ora della “fatidica” vocale finale che riguarda la maggior parte delle parole baresi. Si tratta di un suono che non viene pronunciato interamente, ma di cui si avverte la presenza. Molti lo traducono con una semplice “e”. Per fare un esempio: capidde. È corretto?

Non si pronuncia quella “e”, quindi non ha senso scriverla. Quel suono, molto presente nell’Italia Alto Meridionale, è una schwa : indica una vocale debole, non realizzata completamente. E la schwa ha una sua grafia: viene indicata con una e rivoltata: ə. Va scritta così. È un simbolo universalmente riconosciuto, quindi può essere letto, compreso e memorizzato da tutti, anche dai non baresi. Tra l’altro quando il dialetto è espresso velocemente spesso quel suono sparisce del tutto, c’è una “caduta”. E in quel caso persino la schwa potrebbe non andare più bene, figuriamoci una vocale classica.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Accenti sulle vocali toniche: è necessario metterli sempre o si può decidere in base al contesto, come per l’italiano?

È meglio segnarli sempre, così da non generare equivoci nel lettore, soprattutto se non locale. Perché in molti dialetti, tra cui il barese, c’è un fenomeno che si chiama “differenziazione vocalica per posizione”: il timbro della vocale (aperto e chiuso) non segue la base storica latina come avviene per l’italiano. Vedi la parola “Rosa”: in italiano la leggerò con la “o” aperta, mentre in barese chiuderò inevitabilmente la “o”. Quindi meglio scrivere Rósa (con l’accento acuto che segnala la chiusura), in modo tale che tutti possano comprenderne la tipica pronuncia.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Altri suggerimenti?

Per la “c”, quando il suono è velare, come in casa o cuoio, si può usare il “k”. O nel caso di una “a” che tende a trasformarsi in una “e” aperta si può scrivere “aè”.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Ma quindi alla fine “che vuoi” come si scrive?

Usando una grafia semi-fonetica, corretta e comprensibile, io lo sciverei Cə uè?.


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Marco Montrone
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  • Pascale Vito - Sicuramente e certamente un unico metodo per scriver il dialetto barese non c'è anche perchè non esiste una grammatica del dialetto che sia ufficialmente riconosciuta da esperti e dialettologi e fino a quando a Bari ci sarà una grande ANARCHIA dialettale, ognuno scrive e parla come vuole. Peccato perchè negli anni 2000 il grande Vito Maurogiovanni, con Vito Signorile e un accenno di Michele Fanelli, ebbero l'idea di formare un seminario del dialetto barese, idea che fu messa in atto dal presidente dell'associazione mondo antico e tempi moderni nel 2008, seminario che penosamente è finito in una bolla di sapone, proprio perchè gli illustri dialettologi, gli illustri conoscitori e quaccuaristi del dialetto barese furono molto in disaccordo sulle idee da trascrivere e scrivere in una ipotetica grammatica e un corposo vocabolario. Ognuno crede e pensa di essere quando magari non lo è... poche parole da buon intenditore... Grazie a loro oggi siamo ancora in balia delle onde con il dialetto (io lo chiamo dei balbuzienti) con le doppie consonanti con le doppie vocali e tante altre brutture. Non sono un dialettologo, non sono un intenditore, ma il dialetto deve essere capito anche dal più piccolo ceto della città. Buon proseguimento. Vito Pascale
  • Matteo - Tanti anni fa ebbi sootomano una grammatica/vocabolario del dialetto barese a cura di Davie Lopez di cui non dispongo più in cui forse potrebbe esserci qualche suggerimento fonetico. Sarebbe utile quache ricerca biblografica / achivistica in merito. La e rovesciata viene abitualmente usata per indicare la fonetica in molti idiomi, peccato che non sia disponibile sulle abituali tastiere.
  • Vito Petino - Eccelsa prof Maria Carosella, non sapevamo del suo ruolo prima di questo servizio altamente professionale dell'esilio Marco Montrone. Non sapevamo manco dell'esistenza della prestigiosa cattedra da lei magistralmente occupata. Sono Vito Petino, amministratore su FB del gruppo VERNACOLO BARESE DEL TERZO MILLENNIO, e lette ben ben le sue dichiarazioni, noto che al 99 per cento i nostri concetti di una lingua scritta senza regole coincidono perfettamente con i suoi. Proprio giorni fa ho scritto un commento che la lungimiranza della redazione di BARINEDITA, e la sacra pazienza dell'esimio signor Montrone, hanno pubblicato. Commento che a grandi linee riassume il nostro pensiero sui suoni dialettali del nostro barese riportati per iscritto così come sentiti. Proprio come un compositore scrivesse musica in note. Mi premurerò, sempre con il benevolo assenso del direttore di Barinedita, di ripubblicare il commento sotto queste mie. Infine saremmo onorati, se ce ne faceste richiesta, di avervi come nostri iscritti ad honorem , lei e il bravo Marco, nell'anzidetto gruppo vernacolare, per essere consigliati al meglio su quel che scriviamo e come lo scriviamo. Ad esempio non sono riuscito nei miei raccontino baresi pubblicati nel gruppo di risolvere la scrittura del suono gh nel termine voglio, tradotto vogghij, con la coda musicale che si perde, come il suono italiano di ghianda, elisa lz coda andare, che non diventa ghi, ma gh con la coda finora citata. Vi aspettiamo con impazienza su FB. Saluti cortesi. vitopetino...
  • Vito Petino - ERRATA CORRIGE al commento precedente: 1) dell'esimio Marco Montrone; 2) miei raccontini baresi; 3) elisa la coda anda; 4) la coda sonora citata. Nello scusarmi degli inconvenienti, saluto con cortesia, estendendolo anche al caro Vito Pascale che mi ha preceduto...
  • Vito Petino - ALLA CORTESE ATTENZIONE DELLA PROF MARIA CAROSELLA NICCOLÒ PICCINNI E L'IMPORTANZA DELLA LINGUA NATIA Emotivamente bello e interessante storicamente il servizio datato 11 giugno 2020 del bravo Marco Montrone, degnamente illustrato dalle foto di Valentina Rosati, sul nostro più importante musicista del ‘700 e oltre, quel Vito Niccolò Marcello Antonio Giacomo Piccinni che campeggia dal suo piedistallo su tutto il corso Vittorio Emanuele nel cuore pulsante della sua Bari. Oggi costretto, purtroppo, non più a comporre musica, ma più prosaicamente a dirigere il caotico traffico dell’intasata arteria centrale della città. Probabile che ai suoi tempi in quelle stradine strette della Bari d’allora i suoi vicini di casa fossero molto più disciplinati, pur nell’imperante ignoranza dell’epoca. Ma né sulla penna mancante e nemmeno sul civismo del tempo voglio soffermarmi. Ciò che ha calamitato la mia attenzione è la frase in chiusura alla didascalia della dodicesima foto del servizio di Barinedita “Ce uè?”, che Niccolò avrebbe detto per reazione alla sparizione della penna. Un barese di piazza Mercantile non avrebbe mai scritto una “e” all’epoca inesistente, tirata fuori a metà novecento da un piccolo gruppo di gente “colta” che si definisce “scuola del barese, regole di scrittura dialettale”, volendo mettere le briglie a ciò che naturalmente suona dalle bocche con armoniosità. È come voler mettere legacci all’aria fresca, o imbrigliare le farfalle. Morrebbero. I dialetti sono una conquista del popolino senza banchi di scuola, che da tempo immemore lo scrive, per quel poco che serve, come lo parla. Su Facebook ho fondato il gruppo VERNACOLO BARESE DEL TERZO MILLENNIO proprio per controbattere, non combattere, quella cerchia che ne vuol fare un suo vernacolo in esclusiva, scambiandosi tra loro poesie, raccontini e prosa varia, che rimangono in quell’ambito ristrettissimo di pochi intimi. Nulla da togliere alla loro fatica pur sterile, ma i loro sforzi restano senza il consenso delle masse che, nel 99 per cento degli iscritti baresi a FB, continuano a scriverlo come lo scrivo io. Proprio notando questa peculiarità, mi è nata l’idea di fondare il gruppo, insieme ad altri adepti. Babbo nei miei primi dieci anni, insieme ai miei fratelli venuti dopo, ci aveva proibito in modo assoluto di esprimerci in dialetto, e per evitare contaminazioni proibiva a nostra madre di mandarci per strada se non accompagnati da lei. Anche se poi tante nostre vecchie zie, e zii soprattutto, quasi tutti molto colti, l’ho usavano abitualmente quando venivano a trovarci nel vecchio bivani di via Carulli. Senza contare le occasioni che si presentavano quando nostra madre ci portava al mercato di via Abbrescia-Celentano per la spesa giornaliera. Dunque, sino ai dieci anni, del dialetto barese ne sentivo i suoni che mai la mia bocca pronunciava. Ma il cambio di abitazione fu provvidenziale; nella nuova casa le nostre abitudini giornaliere dopo la mattinata a scuola cambiarono radicalmente. Appena giunti a Japigia nella primavera del ’54, con tanti spazi verdi intorno alle nostre case popolari fresche di edificazione, e con frotte di ragazzini per strada, lasciarci andare liberi con i nuovi amici fu giocoforza per mia madre che, nascondendo a mio padre quel nostro importante bisogno di misurarci con i nostri coetanei per una naturale formazione di sana crescita, divenne nostra complice, chiamandoci dal balcone ogni giorno prima delle cinque del pomeriggio, momento in cui lui tornava dal lavoro in ferrovia. “Vitino, Lilli, salite che fra poco arriva Babbo”, e l’idea delle conseguenze, ci faceva lasciare qualsiasi gioco stessimo facendo per la paura di prenderle. Babbo riversava su di noi tutte le sue aspettative di vita superiore, per lui infrante dalla spietata realtà. Senza più madre dall’età di otto anni, dovette prendere la strada del lavoro nell’officina del padre, sotto gli archi della Bari-Matera. Il mio amore per il dialetto barese, dunque, nasce a età tarda, rispetto al tempo naturale d’apprendimento, quando ogni neonato comincia a percepire quei suoni che l’accompagneranno tutta la vita. Suoni molto più amati quando ci si trova in altri paesi. Infatti chi, trovandosi soprattutto in città del nord, non ha avuto un dolce sobbalzo al cuore, appena sentito il nostro amato vernacolo. A me è successo spesso nei due anni milanesi. In stazione, nelle vie, in piazza, il cuore mi ha dato sempre un balzo nell’udirlo pronunciare da gente sconosciuta che, immediatamente individuata, diveniva uno di “famiglia”. La scenetta ricorrente si ripeteva ogni volta che mi sforzavo a chiedere in milanese sporco un’informazione, ricevendo come risposta dal barese dell’occasione “E parl accom t’ha fatt mammt”. Io ho preso la frase alla lettera, modificandola in “E scriv accom t’ha mbarat mammt a parlà”. Si possono imporre regole alla libertà, dunque? No, perché non sarebbe più libertà ma imposizione, appunto. Certo che il dialetto è importante. Per difenderlo, io nel 1962 a Milano ho preso una coltellata alla nuca da un bauscia polentone a cui dava sui nervi la nostra parlata, prima che lo mandassi all'ospedale. Mai vergognato del mio musicale linguaggio natio. Nei due anni all’ombra del Duomo, ’62-’63, ne ho dirottati di proseliti al nostro barese, insegnandolo a tutti gli amici, senza mai apprendere il loro meneghino. E come ci siamo divertiti ogni sera con gli scioglilingua nella trattoria di via Solferino difronte a casa, e nei dintorni di Porta Garibaldi e porta Venezia, e Galleria, Naviglio, Porta Nuova, sino a declamarli negli spogliatoi quando si giocava a pallone. "C ng n’ama scì, sciamaninn. C no ng n’ama scì, no ng n sim scenn". E le risate che scoppiavano fra noi con la lingua che si impastava prima di sciogliersi. Si possono mettere briglie e morsi a "vastasi" di strada che hanno rinnegato ogni testo scolastico perché incomprensibile per loro? Se per millenni si è parlata la lingua natia con la stessa facilità del primo respiro, perché complicare la vita a chi esprime il proprio linguaggio così come l'ha sentito sin dal primo vagito. E se ora a malapena ha imparato a scriverlo, lasciamoglielo fare liberamente come libero è ogni dialetto del mondo, senza testi né testoni. Se avessero avuto la capacità d'intendere regole e costrizioni, sarebbero diventati tutti dottori. E che ce ne facciamo di migliaia di dottori, appena appena utili solo a curar se stessi. Dimostrazione lampante di quel che asserisco è l'espressione semplice come l'acqua dell'esimio dr Mirabella riportata in prima pagina della Gazzetta del Mezzogiorno del 22 dicembre 2019. Mirabella ha scritto il termine "scandat" (spaventato) proprio come tutti lo udiamo, riportandolo direttamente nero su bianco; commettendo però una lieve imprecisione nel riporto, non so se per disattenzione o perché nel suo idioma bitontino il suono è quello scritto. Teniamo anche in debito conto la sua lunga assuefazione alla lingua colta, ma il risultato è che quel che lui intendeva è arrivato comprensibile alle menti del colto e dell'incolto. Avrebbe dovuto solo, per un barese perfetto, staccare le prime due lettere sc (come sci), aggiungendo una seconda c, per avere le autentiche note scritte del termine, cioè "sc-candat". Oppure vogliamo dare dell'asino anche a Mirabella. Allora siamo tutti asini, ben felici di esserlo, scrivendo le note del nostro barese proprio così come le cantiamo, liberamente; con la testa sgombra da tante cianfrusaglie, che pochi accademici barbosi vogliono metterci dentro a forza. La differenza con loro sta tutta nel concetto di anarchia vernacolare che io sostengo, mentre gli accademici vogliono imporre severe regole ai duri di comprendonio. Ma il suono è suono e a ogni tono di voce corrisponde una nota. Non esistono note che si mettono nello spartito e non si suonano. In musica le pause, i silenzi si esprimono con spazi bianchi, senza nessun escremento di mosca, come capitò a quel musicista che suonava fuori dal coro. Rappresentiamo due distinte correnti di cultura dialettale. Una con regole ferree ma confusionarie, e la mia invece che sostiene lo scrivere semplice della maggior parte dei baresi non accademici. E non mi riferisco alla maggioranza di frequentatori dei social, ma alle migliaia di cafoni baresi, tutti afferrati nel parlare la lingua natia, prima che negli anni ‘50 qualcuno cominciò a mettere regole che nessuno capiva. A quei tempi mia zia Caterina, terza elementare, scriveva al figlio militare un misto di italobarese. “Car Nicol, ti ho mandato l sold p ‘stù mes. Non saccio c t li pozzo mandarli u mese ca trase”, eccetera. Non vi è stata mai una volta, in tanti anni di scambi epistolari, che mio cugino non si sia compreso con la madre e viceversa. E tornando al gruppo virtuale del vernacolo barese, questa la sola regola che chi vuole può rispettare, noi lo comprenderemo lo stesso, senza rimproveri e tiratine d’orecchie come fanno i “docenti” non richiesti; lo hanno compreso dalla notte dei tempi i nostri avi, baresacci senza cultura, possono comprenderlo anche le ultime generazioni, che almeno la scuola dell’obbligo l’han fatta: SCRIVETE IL SUONO DELLA PAROLA COME LO SENTITE, proprio come i musicisti scrivono ogni nota della loro musica. Nemmeno in italiano i suoni si trasformano. Si scrivono così come si sentono “din don; tock tock, crasc, bang bang. Provate a mettere le “e” inutili alla fine di ogni suono, e vedete se qualcuno distingue più il richiamo di una campana, il bussare di una porta, lo spezzarsi d’un legnetto, lo sparo di una pistola che vuole ammazzare il nostro bel dialetto musicale. Forse è propria quella “e”, che sa tanto di paesi del circondario, ad aver distorto il nome della nostra bella città da “Bbar” a “Bere”. Pur vero che, per impedimenti paterni, vi sono arrivato un po' tardi per parlarlo perfettamente. Ma dopo 66 anni mi son rifatto a sufficienza, scrivendo tante storie e raccontini in vernacolo. Da alcuni si potrebbero trarre delle pieces teatrali sulla scorta del teatro eduardiano. Solo così è possibile portare il nostro dialetto a quegli alti livelli emotivi. Affidiamoci, quindi, all'inventiva che il buon Dio ci ha donato da millenni, nei quali ci siamo sempre compresi pur senza regole. E la sparizione della penna dalle mani di Niccolò, secondo me, è dovuta alla sua pazienza ormai esaurita nel vedere il suo amato dialetto storpiato sulla carta dai “sapientoni” baresi del nostro tempo. Anzi più che di sparizione, penso l’abbia gettata via, vista l’insipienza di scrivere il barese parlato, corrotto da quelle inutili “e” mute, che si “devono” scrivere senza dirle, creando un guazzabuglio di termini incomprensibili per i poveri venditori ambulanti, costretti a dannarsi l’anima per scrivere un ordine. “Care Pasquale viccere, domane purteme une decine de cape de salzzizze de maiale, tre cape de capuzze d’agnedde, e due testicole de cavadde”, invece del più armonioso, diretto e semplice “Car Pasqual u vccir, doman purtm ‘na dcin d cap d salzizz d maial, tre cap d capuzz d’agnidd, e du’ chgghiun d cavadd”. E allora, diretti dall’esimio maestro Vito Niccolò Marcello Antonio Giacomo Piccinni, noi baresi veraci gridiamo tutti in coro “C ué?” …
  • Gigi De Santis - Bari, 23 giugno 2020 ALLA CORTESE ATTENZIONE DELL’EGREGIO DIRETTORE MARCO MONTRONE B A R I Gentile Direttore, Ho letto con attenzione il suo articolo, nonostante mi ha chiesto in precedenza delucidazioni sull’ortografia barese. Ho notato che è ancora incerto su come scrivere correttamente la lingua barese. Perché di lingua si tratta e non dialetto, perché ha una propria grammatica e lei l’ha citata. Signor Direttore lei mi conferma che De Filippo (dialetto napoletano), Trilussa (dialetto romano), Goldoni (dialetto veneziano) sapevano scrivere unifornemente i loro idiomi? Io so, invece, che erano bravi, bravissimi, commediografi e registi (Goldoni ed Eduardo, quest’ultimo pure eccellente attore). Di Goldoni non so se avesse colleghi che scrivevano in dialetto veneziano. Eduardo scriveva il dialetto di Napoli diversamente da quello di Di Giacomo. Trilussa, poeta romanesco, il suo dialetto non fu uniformemente con quello di Giuseppe Gioacchino Belli e viceversa. Se parliamo di letteratura è chiaro, Napoli Venezia, Roma, sono molto più ricchi e retrodatati. Ma da qui ad affermare che siano scritti correttamente e grammaticalmente giustificati, mi dispiace, ma ce ne vuole. Ricordo che anche Bari ha un proprio patrimonio letterario di tutto rispetto, cito solo Abbrescia, Lopez, Nitti, B. Maggi, Maurogiovanni, Piergiovanni, e tanti altri. Bari non è proprio a digiuno! Scrive bene signor Direttore, che a Bari «Ci sono stati comunque dei tentativi, come quello operato nella seconda metà del secolo scorso dallo scrittore Alfredo Giovine, il quale cercò di stabilire delle regole che potessero valere per tutti. Ma lui stesso definì il suo lavoro “migliorabile da parte delle generazioni successive”». L’indimenticabile storico, demologo e linguista barese Alfredo Giovine, con la sua grammatica ha posto fine a pseudo-grafie, di “poeti”, scrittori e cantanti viventi, ognuno con una propria scrittura. «Il Dialetto di Bari», la grammatica di Giovine, è un punto fermo nella folta schiera dell’anarchia grafica barese. E se Giovine ha asserito che «il suo lavoro “migliorabile da parte delle generazioni successive”», significa, signor Direttore, che il lavoro di Giovine, non sarà vangelo ma è uno sprone ad appassionati e cultori a migliorare e proseguire nella ricerca e nello studio. Pensi ai miglioramenti della scienza che ha corretto la scienza. Certo è, che la grammatica di Giovine ha potuto spiegare e fare luce su errori madornali di ortografia, che neanche i “professori” conoscono. Se tra gli addetti, come ha scritto Lei, «si sono però divisi su diversi aspetti», è perché non hanno studiato, non hanno approfondito, ma sicuramente non conoscono la grammatica di Alfredo Giovine. Mi piace che abbia intervistato una docente universitaria di Dialettologia e, fa piacere che anche i cattedratici si interessino della lingua barese. L’insegnante Maria Carosella, di Dialettologia italiana, nel 2011 ha pubblicato un libro «Narrativa Neodialettale in Puglia, Saggi su Carofiglio. Genisi, Romano, Lopez», edito da Cacucci Editore, ma non ha citato Alfredo Giovine, nonostante nella bibliografia e sitografia cita il libro di grammatica di Giovine «Il Dialetto di Bari». Ho avuto l’impressione che non l’ha nemmeno spulciato. Concordo quando scrive del rafforzamento fono-sintattico, facendo l’esempio «stè ddò (stai qui), ma, in barese, ‘stai qui’ si scrive “statte ddò”; mentre “stà (e non ‘stè’) ddò” in italiano (sta qui), si può scrivere con due “d”, per far capire che ci troviamo davanti a un raddoppiamento fono-sintattico. Se il timbro è più intenso perché non dovrei mettere due consonanti solo perché l’italiano non permette di porle in posizione iniziale? Spero, finalmente, si convincano gli scettici e coloro che si intestardiscono dicendo che pronunciando due ‘dd’ si parla come parlerebbe un balbuziente. Non sono d’accordo quando alla sua domanda «Professoressa, c’è un modo “giusto” per scrivere il dialetto barese?», risponde: «L’unico modo corretto sarebbe quello di usare un alfabeto fonetico come quello Internazionale, ma per rendere fruibile il testo anche ai non addetti ai lavori è necessario trovare degli espedienti grafici. Un buon metodo è quello di “fotografare il suono con le orecchie”». Non è possibile scrivere il barese con l’alfabeto fonetico come quello Internazionale. Adoperando l’alfabeto fonetico bisogna essere “studenti” universitari, mentre la grammatica di Giovine «è dedicata al popolo minuto e a chi vorrà prendere cognizioni del barese; certo non è rivolto ai glottologi, ma spero che gli stessi possano trovare qualcosa che li possa incuriosire». E aggiunge: «Non è del tutto escluso che possa seguire un’altra edizione composta con criteri diversi», vale a dire: “approfondimento nello studio dell’ortografia barese”. Alla seconda domanda riguardante la (e) atona a fine parola che riguarda la maggior parte delle parole baresi, la professoressa scrive che bisogna sostituirla con la ‘schwa’, una ə rivoltata. Sia in italiano, come in latino e, naturalmente, in barese la ‘schwa’ non fa parte degli alfabeti delle lingue soprascritte, perché fa parte, obbligatoriamente dell’alfabeto fonetico. Ergo, o scriviamo tutta la parola foneticamente o adoperiamo la grafia barese usando l’alfabeto italiano, che tutti conoscono o che dovrebbero conoscere, compresi alcuni fonemi e alcuni fenomeni propriamente baresi. Quindi nella grafia non solo barese, ma delle parlate locali centro-meridionali si usano due (e); la (è) tonica (si scrive e si pronuncia come in italiano) e la (e) atona (si scrive obbligatoriamente ma non si pronuncia.), ma soprattutto le parole in barese non terminano mai con una consonante. Relativamente all’accentazione, Giovine chiarisce: «L’accento grave posto sulla vocale tonica indica sempre e soltanto la sillaba che ha l’accento principale della parola. Pertanto non si intende distinguere le vocali aperte da quelle chiuse, in quanto anche una tale distinzione non riuscirà mai a rappresentare il valore dei vari fonemi dialettali. Come pure, il non Barese non saprà pronunciare correttamente il dialetto barese, neanche se sorretto dai più scrupolosi segni diacritici». Concordo con la professoressa Carosella quando dice che tutte le parole è bene accentarle, anzi, per quanti si avvicinano per la prima volta alla scrittura barese, è doveroso, col tempo però gli accenti superflui possono essere eliminati, dopo aver preso familiarità e padronanza della scrittura. Per nulla d’accordo, invece, a proposito della consonante straniera (k) al posto del c iniziale di parola. Infatti, nell’ortografia barese, il (k) è usato esclusivamente con il nesso consonantico ‘sc’ (di scena) perché fornisce il suono del ‘c’ duro (sck) per pronunciare sckène, sckarde, suono diverso da (sch), (sca), (scu): sckeppètte (fucile a canna corta), schepètte (spazzola); sckattà (scoppiare), scattà (scattare), sckute (sputo), scude (scudo). Quindi riferendomi al titolo dell’articolo, la locuzione ‘che vuoi?’ usando esclusivamente l’alfabeto barese e non una grafia semi-fonetica, (affermazione che mi ricorda “le mezze stagioni”) cioè cattedratica, la corretta grafia è: “Ce uè?’
  • Fiorella - Il nostro dialetto suscita dibattiti discordanti fra esperti, ma dopo questa interessante e qualificata intervista del dott Montrone, auspico un'apertura maggiore verso un dizionario leggibile anche da chi non è barese rifacendosi a regole linguistiche generali. Solo così sarebbe finalmente letto fedelmente dando la giusta dignità ad un dialetto che attualmente suscita ancora un po'di soggezione negli stessi baresi, quasi vergognandoci. Grazie
  • Vito Petino - La mia non vuol essere replica sterile, men che meno ripicca inutile a quanto affermato da chi giustamente difende i suoi novecenteschi diritti primatisti su quelle che sono regole intese a ingabbiare la musicalità del nostro dialetto. Vocabolario, regole e grammatica abiurate con naturalità per tardo comprendonio da molti baresi dei cosiddetti “vastasi”. Non si ottiene nulla forzando i muli quando non vogliono o, più intelligenti dei loro conduttori, non possono. Non ci sono riusciti i loro padri, pur riempiendoli di mazzate più sonore dello stesso volgare di famiglia, nel mandarli a scuola a imparare l’italiano per sola, d’altronde vana, elevazione sociale. Molto più utile l’immediato dialetto sentito sin dai primi vagiti per i mestieri di piazza che rappresentavano il loro unico futuro, figurarsi se quattro non docenti senza laurea alcuna in materia, possano “costringerli” a libri turchi che hanno, se non odiato, certamente preso a calci. Ma forse che l’anonimo autore del Placito Capuano, s’è rivolto con veemenza al Dante, oltre 300 anni dopo, redarguendolo per il suo italiano molto più moderno, nella impossibile pretesa di costringerlo a fermare l’evolversi del linguaggio? A loro piace fare gli accademici, in una stretta cerchia di pseudo scrittori di storielle e incorporee poesie che si capiscono e s’incensano solo fra loro, tra cui nomi che alla grande massa popolare dei baresi non dicon nulla? Se proprio insistono, e certamente nessuno glielo impedirà, di quella ristrettissima agorà ne facessero la loro “crusca” del barese morto. A far farina pura a doppio zero col nostro vernacolo ci pensano già le migliaia di cittadini che affollano le immense piazze di Bari. Dalla Umberto in cui domina uno dei più noti atenei d’Italia che ha dato l’imprinting della baresità colta ai nostri ragazzi più fortunati, alla Garibaldi; dalla Roma alla Risorgimento, estendendo l’eco gigante del dialetto dalla Rotonda alle piazze moderne di Bari. E quanti nomi famosissimi son venuti fuori da queste grandi aule all’aperto. L Colin, l Iannin, l Vitin, l Flicett, l Giuann, l’Andonett, e quanda Pasqual e Sisin, Vnginz e Teres, Sabbin e Mariett, Mchel e Carmela, Tonin e Gina, Iang-uw e Rosett, Elvir e Mngucc, Finell e Felucc, e tand’angor accom la piogg fitta fitt e fresc-ca fresc-ch. Nomi che affidano il loro cantato comunicativo ai compagni più preparati che, sentito con le orecchie, elaborato con la mente, lo riportano col cuore alle mani che traducono sulla carta quella che sembra una lingua criptica. Allego ad esempio illuminante la cronaca di fatti accaduti alla mia famiglia quando, ragazzino, non avevo ancora appreso tutto del dialetto barese. Provassero i finti accademici ad aggiungere la loro “e” sordomuta a tutti i termini del capolavoro dipinto in tinte vivaci e luminose che ne ho fatto del mio racconto e vedranno tutti l’incomprensibile storpiatura che quella “e” diversamente abile produrrebbe. Il nostro è il dialetto, non antico e con parole ormai sepolte dalla muffa, ma moderno dei ragazzi d’ogni quartiere di Bari. È quel vernacolo barese che tutti “sentono” cantare nei vicoli di Bari Vecchia, nelle strade del Libertà, nei corsi Murattiani, fra i casermoni del San Paolo, nelle vie di San Pasquale e sul lungomare della Madonnella, In strade e vialoni di Poggiofranco, Carrassi e Picone, nelle vie tortuose o rette di Carbonara, Ceglie e Loseto, nelle stradine e nel lungomare di Santo Spirito, Palese e Torre a Mare, nei viali di Japigia, nei giardini, spiagge e campagne che circondano la, pure nostra, bella Bari… A SAN GIUANN L CHLUMM SCI-UWN NGANN Quann iemm uagnungidd a ccasa nost la vscigghij d San Giuann la sim passat a ddo maner. Chedd do cinguandaquatt im bo’ la sim fstggiat alla casa nov d Japigg. Ma mo vogghij racchndà la prima maner. Quann iavtavm a via Carull, frnut la scol, mamm ng mannav a ffa l vacanz in gambagn dalla sor chiù grann d iedd d vind’ann, zì Catarin, che iavtav a Sam Brangis-ch alla Ren. U lech u mannav nnanz zì Giuann Giannuzzi, u marit, e iev tutt cudd t-rren ca stev dret alla Pnzllin addò facev capolign la flovì nnummr 5, piazza Massari-Lido. Probbrij drmbett alla Pnzllin stev l’endrat dlla spiagg, addò ij e Lill, fradm picinunn, facevm l bbagn. L figghij d zì Catarin aijtavn u’attan a fadgà ijnd o lech. Ma la dì dlla vscigghij d San Giuann, Chelin, Flicett, Colin, Andonett e Rosett, lassavn tutt p prparà ciò ca srvev p la fest dlla ser. Marì, la figghia spsat d zì Giuann e zì Catarin, vnev la ser ch l fighij e u marit, ca s chiamav pur ijdd Giuann. E iev probbrij festa grann, prcè vnevn l’ald parind da Bbar. Mio padr e mia madr ch sorm d desc mis mbrazz, Virucc. Po’ arrvavn zì Iang-uw, u frat grann d mamm, ma d tre iann chiù pcnunn d zì Catarin, ch la mgghier, z’ Mariett l’andrsan e l cingh figghij ch la sciond, Tina cu zit Nin, Lillin, Ririna cu zit Gin, Franghin e Rosett. L figghij d zì Iang-uw a zì Catarin e zì Giuann l chiamavan z’ commara la grann e z’ combar, p nu combarizij che tra l do famigghij ng’ev stat. L cuggin appen arrvat, nzim all figghij d zì Catarin, prparavn na tauwa longa longh ch l pangh d legn atturn atturn ijnd o spazij grann ca stev nnanz alla massarì, ca srvev pur da cas, addò s scev tutt a ddorm dopo la fest, sop a tanda matarazz e lnzer sc-ttat nderr, l femmn ijnd a na stanz e l mascuw ijnd all’ald. E a combletà la tauwa longh s mttevn sop tvagghij e tovagliol, frcin, chcchiar, crtidd e bcchir; l bottigl d mmir e iacquw stevn ijnd o galtton chin d ghiacc. Zì Catarin, z’ Mariett, mamm e Marì stevn ijnd alla cucin a prparà l vrmcidd alla Sangiuannidd. L mascuw prparavn se’, sett lum a ptroglij prcè a chidd timb la lusc elettrch no ng stev, e ppo’ chmnzavn a tagghià salzizz, prvlon, fett d pan, prsutt crud, e ald candrimind ca zì Giuann prparav quann accdev qualche bbestij ca crscev ijdd. Tnev pur nu cavadd, ma cudd non z’attcchuav, prcé srvev, attaccat o carr ch l rot gross, p prtà zucchin, mlnzan, papruss, fnucchij, rafanidd, nzalat e alda rrobb o mrcat. Frattand, Colin e Franghin appcciavn u fuech p’arrost sop all carvun la salzizza fresc-ch e u uagnidd a spezzatin che avevn accis apprim ijnd alla stall. Ij e Lill ng godemm u spettaghl, e ng dvrtevm a fscì dret a gaddin, vicc, tre gardidd e do paparell che s’as-chnnevn sott alla tauw, o fscevn a rcoverars ijnd alla stall. Zì Cararin ng grdav “Lassadl fa s no doman non fascn l’ov”, e ij ng rspnnev “Zia Caterina, posso vedere se stanno per fare le uova?” ”No, alla zì. Ciù uev s romb ijnd la gaddin mor”. Pccat, a me m piacev a mett u disct n’gul all gaddin. All’ott, cu sol abbasciat e la lun dall’alda vann ca spndav da dret alla Pinet, granna granna e ross com a nu mlon, arrvav sop alla tauw u re dll piatt d chedda ser. Chlumm, che la matin avemm aijtat a cogghij pur ij e Lill, frisc-ch frisc-ch cu prsutt atturn. Tutt ngi’assdemm, e iun dret o uald, ng l’ammnamm ngann a rnvrsc-cà l cannaril s-ccat do calor. Po’ fmand fmand arrvorn l vrmcidd alla Sangiuannidd. E tra nu bcchir d vin e l’ald, plzat la tauw d tutt cudd ben d Dì, la uascezz acchmnzò a dda alla cap. Zì Giuann tnev na rigonett d legn tutta ricamat, mio padr na vosc ca spaccav l bcchir, e tra mus-ch e ball tutt chmnzavn a candà. A cudd pund, prtat dall canzon, s prsndavn p fa l’augurij o Sand, ch tutt la mor-uw di fighij e nput, la commar e u combar d zì Giuann e zì Catarin, ca tnevn u lech attaccat a llor e che arrvav fin o stadij du pallon da na vann e la Fir du Levand dall’ald. E tra na pasta dolg e nu bcchijrin d rsoglij, rptut cchiù vold, la fest frnev all’alb. E ogni iann a San Giuann iev acchsì, sin a quann nu facemm grann, e la vcchiezz s’apprsndò alla massarì d zì Catarin … Foto 1 – Il rudere che è stata la masseria di zia Caterina; l’edificio bianco alle spalle è l’ex Hotel 7 Mari ora abbattuto; Foto 2 e 3 – Masserie con l’aia di tempi andati; Foto 4 – Fioroni appena colti; Foto 5 – Prosciutto e fioroni; Foto 6 – Vermicelli alla Sangiovanniello; Foto 7 – La rigonetta di zio Giovanni. (le foto sono su FB)
  • Pascale Vito - Vorrei aggiungere solo una piccola considerazione, dopo quello che ho potuto leggere nei commenti. Come al solito spicca sempre il proprio "IO" e fino a quando non ci sarà nei discorsi, nelle proposte, nei modi e nelle discordanze un po di UMILTA' non avremo MAI una grammatica vera e RICONOSCIUTA DA TUTTI I DIALETTOLOGI, dai conoscitori e illustri professori baresi e non solo da un gruppetto. Bisogna tralasciare i propri cavalli di battaglia e mettere insieme le idee e proposte senza fare accenno al migliore o peggiore. I modi di scrivere il dialetto oggi sono quasi infiniti, bisogna raggiungere una intesa e portare avanti un solo modo, ma per fare ciò ci vuole MOLTA UMILTA' ed è questo che manca oggi... Buon proseguimento. Vito Pascale
  • Emanuele Zambetta - Vito Petino dovrebbe capire che il fono schwa in dialetto barese si pronuncia miliardi di volte. La “e” non accentata (esclusa la congiunzione) in funzione della schwa, è una convenzione, un modo più semplice di indicare quel fono. Vorrei capire come lui scriverebbe le traduzioni baresi di “portalo”, “piglialo”, “acqua” o “pillola”. Ha mai pensato alla differenza di pronuncia tra le parole baresi “sorte” e “sòrete”, “forche” e “fòreche”, “mirte” e “mìrete” o “clore” e “chelòre”? Grazie alle schwa (che si pronunciano) possiamo distinguerle nel parlare (e quindi anche nello scriverle). Il Sig. Petino come scriverebbe le parole baresi “venènnesene”, “chiecà” o “meneuescià”?... La sua anarchia danneggia il dialetto barese! Altro che amore! Anzechè scì nnanze, sciàme ndrète!
  • Emanuele Zambetta - Aggiungo: ovviamente sono consapevole del fatto che il parlar veloce può causare la caduta delle schwa persino all’interno delle parole. Ed ecco che un trisillabo (esempio) può diventare bisillabo. Ma di base le schwa ci sono e risultano utili per distinguere le parole.
  • Vito Petino - N’ALD PROVSSOR CU CAPPIDD E L BUCH P L RECCHIJ Ué, provvssò Zambé, ma c provssor si c non za mangh lesc. Non zi probbrij accapsciut na mazz. Chiù bell l’aveva scriv la storij dll vrmcidd alla Sangiuannidd? Acchmminz da cap. E lisct tutt chian chian da cap a ppit, e vvid c po’ ngi’accapisc megghij. T sim ditt can nu sim chidd vastas d menz alla strat, ca non pigghijn ma la penna mman e c’iù facim iè sol p qualche fuscia fusc. E no ng servn né la “iè” sordomut e neppur chedd accappottat. Mangh u’accend ng serv; u mttin asslut alla fin dlla parola c ngiù disc la recchij. E po’ c ngi’accocchij u tdesch tu; c significh “Schwa rz e negr” no stam mich o cinm. So già spiegat all’ald chmbar tu cu cappidd arrvldat du g-lat ch du buch, ca nu non tnim reghl, e tu, capatost com all’ald, ng uè prtà arret alla scol, e non zol (ambart quann maner stonn p scriv la stessa parol n dialett barese, u ver barese), tu m chijd pur d fa l’esercizij, mttenn la “e” sordomut ca s scriv e non z disc ( e ci ié l matt), p fa dvndà u barese accom l leng-uw fmmnedd dlla proving, p fang sfott po da chidd ca discn “Ah, sei di Bbere”, prcè chidd d for so chiù ndelligend d vu; la “iè” sordomut, arrvldat, mbriach, la vedn e la discn, chmbnann nu mnstron d fasul, susin e past dolg da fa sc-ttà pur l gattudd. O vlit mbarà le reghl vost a tutt u munn. Sop all bangh dlla scol non gi’hann attaccat ch l mazzat mangh l’attanr nest, e mangh cudd gigand ca vlev fang mbarà u talian, cudd sand’ommn d Giosuè Carducc. E mo quatt sflazz ca s’achiudn ijnd a nu museij penzn d mettng la musarol. Ambaravd vu d mett alla fin dll parol ca u voln la cod “ij” o “uw”, che ogni barese d sett generazzion tr-nguesc ch la cota musical “vogghij, ij ij ij” oppur “tauw, uw uw uw”. Nsciun v mbdisc d tnerv l regol vost; e tnitavill. Ma lassadc u bell dialett nest senza zoch ngann, e u frmndon ijnd o c-rvidd. Vu angor aviva nasc quann nu sim prtat u “barese adaver” mbrgssion p tutt l chiazz d Bbar. U barese mi ié cudd d mio padr du 1910, di mio nonn du 1884, e du bisnonn du 1853, e du trisnonn du 1822, e scnnenn scnnenn, d tutt chidd d la razza me andich, che attraccorn o muel d Bbar ch l nav roman. Vatt a lisc la storij dll Petin, almen chedd, e vit c no n’è vver. E c ué tu mbarà u bares nest verasc, verasc accom l cozz l’alliv prvlon e salzizz che bagnavm ch la birr o scech du zzumbaridd sop o Fortin, vin sop a Fessbucch, u grupp du Vrnachl Bares du Terz Millegn, e vit tutt l storij me ca so scritt cu barese nest e t’avvirt ca ijnd ng sta chedda cos ca vu prvssur fasull chiamat, aspitt ca mo mu arrcordch, ah “il pathos”. Quanda lagrm hann’assut dall’ecchij d femmn e masc-uw p tre storij: VECCHIJ PSCATOR; LAGRM D’AMMOR; LIN E DIN …
  • Emanuele Zambetta - Vito Petino, io non voglio imporre agli altri le mie regole, le mie abitudini legate al dialetto. So benissimo che più metodi di scrittura potrebbero essere validi per rappresentare il barese. Ma a meno che non si ricorra all’alfabeto fonetico, ogni altro metodo sarà più o meno difettoso. Poco ma sicuro. Però i difetti sono assolutamente la via da seguire perché è ovvio che non si potrà scrivere in dialetto ricorrendo completamente ai complicati simboli fonetici (sarebbe fantascienza). Non a caso non me la sentirei di attaccare chi in funzione della scevà adopera il simbolo “ë” o “ə”. E lo stesso discorso potrei farlo in tantissime altre situazioni grammaticali. Più metodi possono essere logici. Assolutamente sì. Dopodiché è doveroso affermare che anche l’uso della “e” ha una sua valida logica in rappresentanza del fono scevà (come ho già scritto nei commenti precedenti). Quindi la mia intenzione non era quella d’importi l’uso di “e”; volevo semplicemente difenderla. Difenderla visto che è stata denigrata da te in maniera tra l’altro non professionale. Sai benissimo che svariati grandi autori dialettali baresi hanno adottato la semplice “e” per indicare le scevà (così com’è accaduto in tanti altri dialetti dell’alto-meridione). Anch’io l’ho fatto (da modesto autore ed appassionato quale sono) in quanto è il modo più veloce per rappresentare grafematicamente il fono in questione che tu sbagli enormemente a ripudiare nel corpo delle parole in molte situazioni (percè tande de chidde volde, cudde sùune se sènde e ccome aqquànne se parle). A mio avviso non possiedi le conoscenze basilari linguistiche per poter scrivere decentemente il dialetto, altrimenti non avresti pubblicato determinate inesattezze. Se sei uno a cui non frega di studiare, ok! Sei libero di farlo. Ma allora perché lotti così tanto per esporre le tue idee?... Starai provando forse anche tu a divulgare tenacemente una scuola di pensiero?... Se così fosse, non saresti molto diverso da altri “professori” più o meno improvvisati che circolano in città. Pare tu abbia creato un metodo di scrittura ben preciso. Sbaglio?... Il problema è che il tuo metodo non è accettabile, non rientra tra quelli logici, validi. Non è assolutamente corretto per esempio utilizzare “j” e “w” per rappresentare le scevà come tu fai. Scrivere “glorij” (gloria) e “viduw” (vedilo) è un’assurdità. Secondo me non conosci nemmeno le basi della fonologia. Conosci per esempio la differenza tra “i” fonologiche, ortografiche e diacritiche?... Non credo. Non dìine tazze e uè bève cafè?... Ma nzomme, Vitìne! Sì partùte n-guìnde a respònneme offennènneme. Devi esporre le tue idee con professionalità. Debbo dirtelo io che potrei esserti figlio?... Non voglio importi il mio metodo di scrittura. Quando mi sono rivolto a te, ho scritto in una certa maniera in quanto il metodo che adopero è quello. Che ci posso fare?... Volevo semplicemente sottolinearti il fatto che tu sbagli alla grande nel non adoperare un degno grafema in rappresentanza della scevà. Statte secùre ca pe le crestiàne de m-mènz’a la strate, pur’u mètede tù iè deffìggele da mbarà; t’avìss’a crènze. Io ho ancora tantissimo da imparare. Però, pian piano, ho imparato perlomeno le basi fondamentali. E se non si conoscono le basi, non si potrà capire cosa è sicuramente sbagliato e cosa accettabile. Te pozze assecurà ca pure iì u barèse u sacce parlà bbuène. No stà asselùte tu a sapèuue parlà asseduàte o ad avè cambàte scettàte m-mènz’a la strate da la matìne a la sère. E comùngue nù sime bbrave crestiàne, cape a la sciòggue. Miche nge sciàme arragànne pe sti fessarì. Iè o nonn-è?... Credechìsce le “prevessùre” e ppò tìine pezzìnghe u tìimbe de scì a scrive le papìre sop’a indèrnètte. Iùne ca tène scecuàte o zembarìidde va facènne chisse cose? Moh, ha cangiàte u munne! Me fasce piacère!... E bbrave a Vetùcce!... Riguardo ai contenuti di ciò che scrivi non posso dir nulla in quanto non li conosco affatto. E non metto assolutamente in dubbio che tu sia un asso (non sono iscritto a Facebook). La creatività nel comporre è un discorso a parte. Ma il modo in cui scrivi il dialetto è assurdo (in esso c’è troppo che non va). Assurdo tanto più se lo “pubblicizzi” nei commenti sotto gli articoli di un giornale web blasonato come Barinedita. Non mi sarei mai permesso di infastidirti in un altro contesto. Gli anarchici continuino pure ad essere tali. Ma sì ttu ca sì alzàte la pòlvere pe pprime attaccànne pubblecamènde l’alde mote de scrive, non respettànne cì se fasce u mazze tande a stedià. Certamènde sbàgghie pure cì vole mètte le musaròle che la prepotènze. Ma se si vuol nobilitare definitivamente la nostra letteratura dialettale, non ze pote pertà n-ghiànde de mane u mote de scrive tù (tande cchiù ca tu disce de ièsse n’autòre nziste). Spero vivamente che questo mio commento venga pubblicato. Vito, sei una persona istruita e si vede. Le carenze credo tu le abbia nell’ambito fonologico-fonetico. Ciao Vito! Buona vita! Un caro saluto alla Redazione.
  • Claudio Ruffino - Sono d'accordissimo con Emanuele Zambetta e sostengo con forza le sue giuste considerazioni. La e-muta non sempre, ma spesso è necessaria. Di casi citati da Zambetta c'è ne sono tantissimi; troppi per rinunciare a quella e. La lunga e appassionata arringa che Petino ha fornito in risposta a Zambetta senza usare la fatidica "e", sarebbe anche interessante... se fosse leggibile! Poi, se è vero come dice ... che non devono esserci regole, perché allora attacca l'uso della e?
  • Emanuele Zambetta - Mille grazie a Claudio Ruffino per l’appoggio. Certo, di casi ve ne sono parecchi: curte-cùrete, Parde-Pàrede, coste-còsete, vaste-vàsete, salme-sàleme, parle-pàrele, prate-peràte, Marche-Màreche, piste-pìsete, parche-pàreche, frishche-frìsceche ecc. Son tutte parole che, al di là di come vengono scritte, foneticamente si differenziano soltanto per la presenza o l’assenza del fono schwa nel corpo della parola. Non si scappa. Questo fono è fondamentale anche in poesia specie per chi adopera la metrica. In metrica tante volte risultano importantissimi pure gli schwa a fine parola, utili per far numero nel conteggio delle sillabe (casi in cui quindi, oltre a rappresentarli in scrittura, occorre pronunciarli).
  • ferdy.bux@alice.it - non è meglio "c'ué?"


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