di Salvatore Schirone

Bari, la storia della baraccopoli di Torre Tresca: «Lì vissi l'estate più lunga della mia vita»
BARI – «Vissi lì l’estate più lunga della mia vita». Inizia così il viaggio nella memoria del 75enne barese Vito Petino, che da bambino abitò nella baraccopoli di Torre Tresca, quella che lui stesso non esita a definire “il ghetto”. (Vedi foto galleria)

Di questa triste “città nella città” abbiamo già parlato in passato. Nacque in principio come campo per prigionieri di guerra (“numero 075”) alle dipendenze del IX Corpo d’Armata del Regio Esercito Italiano. Dal 1941 al 1943 ospitò quindi in pessime condizioni igieniche oltre 4mila tra ufficiali e sottufficiali di diverse nazionalità.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Fu poi convertito in “campo di smistamento” per profughi, soprattutto ebrei, fino a diventare dal 26 luglio 1950 al 20 novembre 1968 un luogo per l’accoglienza dei senzatetto baresi. Ceduto infatti dal ministero della Difesa al Comune di Bari, servì per fornire un alloggio temporaneo a decine e decine di famiglie, tra cui 300 dei barivecchiani rimasti senza casa a causa dell'esplosione della nave Henderson nel porto di Bari avvenuta il 9 aprile 1945.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Del villaggio oggi non è rimasta che un’area recintata e abbandonata situata tra il quartiere Picone e lo stadio San Nicola, su cui si erge desolata la chiesetta di San Vito. Ma c’è chi non vuole dimenticare quegli anni in cui a vivere come “deportati” non furono soldati o profughi, ma cittadini baresi.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

È il caso di Vito, che fu ospitato nel campo dal 1° luglio 1953 al 20 marzo 1954. Aveva 9 anni quando arrivò a Torre Tresca con la sua famiglia, che fino a quel momento aveva convissuto con dei parenti in attesa della costruzione di un alloggio popolare nel rione Japigia.

«Il nuovo “villaggio residenziale” ci attendeva - racconta ironico Petino -. In realtà era un ghetto privo di tutti i servizi primari, ma la convinzione che sacrificarsi qualche mese portasse in premio un’abitazione, costrinse molte famiglie ad accettare».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

L’uomo ci narra l’emozione dell’arrivo. «Io, mio padre, mia madre e i miei due fratelli varcammo con il nostro calesse stracolmo di roba le due colonne che delimitavano l’ingresso – ricorda –. E in un attimo ebbi la sensazione di oltrepassare la soglia del tempo: eravamo stati catapultati in un vero e proprio “far west”».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Vito ci offre la descrizione dettagliata del campo.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Era percorso da un’unica strada fatta di ghiaia, affiancata dalle “case” più grandi: 12 enormi capannoni in legno pittati di bianco con i tetti spioventi. In ogni capannone c’erano una cinquantina di stanze, poste una di fronte all’altra lungo un corridoio che terminava con i bagni.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Alla famiglia di Vito fu assegnato il numero 10. «Era il penultimo sulla destra – precisa Petino-, lì si trovava la stanza 26 che spartivamo con mia cugina Maria, suo marito Giovanni e i loro sette figli. Un panno scorrevole fungeva da parete divisoria».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)


Le baracche (sei per lato) erano precedute sulla destra da alcune costruzioni in muratura, in cui erano sistemati un fruttivendolo, uno spaccio per i generi di prima necessità e il corpo di guardia dei vigili urbani.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

«In quest’ultimo abitava con la sua famiglia “lo sceriffo di Torre Tresca”: il signor Zaccaria – ricorda l’uomo -. La sua era l’unica monofamiliare del luogo: una casetta in legno con il tetto a falde ricoperto di tegole e un bel giardino tutt’intorno. Un altro guardiano, Fanelli, abitava invece con noi nei capannoni. Indossava sempre orgoglioso la divisa, giorno e notte».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

A metà strada si trovava la chiesa principale: una baracca che fu poi demolita nel 1960 per far spazio alla predetta San Vito. La comunità parrocchiale venne infatti sin da subito affidata ai frati cappuccini di Santa Fara: per la precisione a don Carlo Fasano, a cui successe padre Ambrogio da Giovinazzo, che provvide ad allestire per Natale un bel presepe e ad amministrare le prime comunioni.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

In fondo alla via era ubicata infine la scuola elementare. «Mia Zia Tina, che abitava a Torre Tresca, faceva la bidella», precisa Vito, che ci mostra una foto d’epoca che ritrae una maestra con alcuni alunni. 

Poi a sinistra si apriva un campo da calcio che fronteggiava tre file di costruzioni in muratura, a destra invece una viuzza saliva leggermente sino a collegarsi alla strada che costeggiava il Canalone.  Al culmine dell’erta vi era un altro gruppo di casette in muratura e l’altro edificio religioso: una vecchia cascina trasformata in luogo di culto chiamata la “chiesa di sopra”.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

La vita del quartiere aveva la sua routine quotidiana. «Ogni mattina all’alba gli adulti uscivano, saltavano in bici e si recavano al lavoro - ricorda Vito -. Noi andavamo a scuola, mentre le donne compravano il necessario negli unici due negozi presenti, compreso il petrolio per lampade poiché non avevamo luce elettrica. Mentre gli anziani passavano il tempo in qualche modo. Ad esempio mio nonno coltivava un frutteto in un pezzetto di terra attiguo, che rappresentava per noi un posto di “villeggiatura”».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

L’avventura per Vito finì il 20 marzo 1954, giorno in cui la famiglia Petino rimontò sul carro per raggiungere finalmente la loro nuova casa nel quartiere Japigia.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Nel villaggio però il clima cominciò a deteriorarsi, soprattutto a partire dal 1962 quando vennero aggiunte altre baracche per ospitare un numero crescente di senzatetto. E l’abbandono e la miseria aprirono le porte alla malavita. Contrabbando, usura, malaffare e prostituzione, gestiti da un certo Vidock, il boss del quartiere, contribuirono alla cattiva nomea di Torre Tresca che divenne sinonimo di covo di delinquenti.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Ma tutto ebbe fine nel 1968, quando anche gli ultimi residenti furono trasferiti nel neonato San Paolo, quartiere pensato proprio per accogliere gli “ultimi” di Bari. Torre Tresca rimase così disabitata e il 20 novembre di quell’anno le ruspe la smantellarono completamente, risparmiando solo la chiesetta di San Vito, che da allora si erge solitaria in mezzo al nulla.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

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  • Eugenio Lombardi - Bellissimo articolo di vita pregna di affanni. Io nacqui nell'anno in cui il sig. Vito lasciò Torre Tresca per trasferirsi nella sua nuova casa. Da bambino, di Torre tresca sentivo spesso parlare e negativamente e ricordo che c'era un autobus urbano che giungeva fin lì.
  • Nicola Moccia - Il sig Vito ha la mia stessa età. Ricordo che con mio padre ci recavamo nella baraccopoli a trovare un suo amico che di nome faceva Petino, il cognome era Mancini. Ricordo di vederlo spesso la domenica presso la nostra tappezzeria, situata in via Piccinni 11 a Bari, giocare a carte con lo stesso mio babbo zio Nicolino ed altri loro amici che attualmente non riesco a focalizzare. Di quelle strade ricordo la ghiaia e la polvere, ci si andava in vespa, una delle prime. Altro ricordo del signor Petino è un quadro che regalò ai miei nel giorno delle nozze d'argento, attualmente in mio possesso, rappresentante un fiumiciattolo che rasenta un villaggio di casette con tetti in tegole dove svetta un campanile. Il commento del sig. Vito ha riportato in me ricordi assopiti. Grazie.
  • nicola - sono un reduce di quel campo,dal 50 al 56 ,dopo che fummo evacuati da barivecchia ,vedere quelle foto sono tornato nei ricordi di bambino.


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